ITALIA - 2006 S. Ignazio e S. Francesco Saverio |
S. Ignazio di Loyola
“Aveva il cuore più grande del mondo”
Ignazio di Loyola nacque ad Azpeitia in Spagna, c. 1491 e morì a Roma il 31 luglio 1556.
E’ stato un religioso spagnolo e fu il fondatore della Compagnia di Gesù (Gesuiti). Nel 1622 è stato proclamato santo da papa Gregorio XV.
"Ferito all'assedio di Pamplona (1521) maturò nella lettura della vita di Cristo la decisione di passare dal servizio militare alla sequela del Signore. Fondò a Montmartre (Parigi) nel 1534 la Compagnia di Gesù (Gesuiti) per la maggior gloria di Dio e a servizio della Chiesa, in obbedienza totale al successore di Pietro.
VATICANO - 1946 S. Ignazio di Loyola |
San Francesco Saverio, apostolo dell’Oriente, fu dichiarato Patrono principale delle Missioni Cattoliche, e a lui fu poi associata come Compatrona S. Teresa di Lisieux (S. Teresa del Bambino Gesù), vissuta tra il 1873 e il 1897.
VATICANO - 1973, S. Teresa del Bambino Gesù
Iñigo Lopez de Loyola - tale il suo nome originario, che egli cambiò in Ignazio dopo la sua conversione - nacque, ultimo di 13 figli, nel 1491, nel castello di Loyola, nella Terra dei Baschi della Spagna settentrionale. Ricevette l’educazione cavalleresca propria del suo ceto. Nel 1517 entrò a servizio del Viceré di Navarra. Amava l’avventura e infervorava la sua mente leggendo romanzi cavallereschi.
SMOM - 2000, Carlo V |
Arduo fu il compito del chirurgo nel riassettargli le gambe, e alla fine - temendo di restare zoppo - Ignazio si sottomise a un secondo intervento di "stiramento" della gamba. Ma tutte le cure e i tormenti non gli valsero a impedirgli di zoppicare per il resto della sua vita.
Conversione
Durante la lunga convalescenza cercò distrazione nella lettura dei suoi romanzi preferiti di cavalleria, ma per quanto si cercasse, non se ne trovò uno in tutto il castello! Gli furono invece dati due altri libri: la "Legenda aurea" di Jacopo da Varagine, cioè una raccolta di vite di santi; e la "Vita Christi" di Ludolfo di Sassonia. Cominciò a leggerli. La lettura della Passione del Signore lo commuoveva, mentre la lettura delle imprese dei santi lo entusiasmava.
Cominciò a chiedersi:
" Perché non potrei fare anch'io quello che hanno
fatto per il Signore uomini santi come
Francesco d’Assisi
e Domenico di Guzman ? ".
VATICANO - 2010 (S. Francesco d'Assisi) e 1971 (S. Domenico)
Monserrato e Manresa
SPAGNA - 1938 La Madonna Nera di Montserrat |
Guarito, Ignazio lasciò Loyola e si diresse a Monserrato, nella Catalogna, al santuario della Madonna Nera. Qui volle trascorrere tutta la notte in preghiera. Al mattino depose la spada e il pugnale all’altare della Vergine, e al loro posto si fornì d’un bastone da pellegrino. Fece una lunga preparazione e una dettagliata confessione della sua vita al maestro dei novizi dei Benedettini, poi, cambiati i suoi abiti con il vestito grezzo del penitente, si diresse a Manresa, a meditare e far penitenza.
Cominciò a digiunare e autoflagellarsi. Ma presto si accorse che queste mortificazioni non gli giovavano per la serenità dello spirito. Capì così le insidie dello spirito maligno e imparò a sue spese la necessità della direzione spirituale e l’importanza della "giusta misura" in tutte le cose. Si dette pure ad opere di carità per il popolo, insegnando le vie del Signore ai bambini e ai "rozzi". Dalle sue vicissitudini a Manresa nasceranno i suoi famosi Esercizi Spirituali, che tanto bene hanno fatto e continuano a fare nella vita spirituale di milioni di persone.
Gli Esercizi Spirituali
http://www.esercizi-ignaziani.it/
Cominciò a digiunare e autoflagellarsi. Ma presto si accorse che queste mortificazioni non gli giovavano per la serenità dello spirito. Capì così le insidie dello spirito maligno e imparò a sue spese la necessità della direzione spirituale e l’importanza della "giusta misura" in tutte le cose. Si dette pure ad opere di carità per il popolo, insegnando le vie del Signore ai bambini e ai "rozzi". Dalle sue vicissitudini a Manresa nasceranno i suoi famosi Esercizi Spirituali, che tanto bene hanno fatto e continuano a fare nella vita spirituale di milioni di persone.
Gli Esercizi Spirituali
http://www.esercizi-ignaziani.it/
Il libretto ignaziano che porta questo titolo fu ufficialmente approvato dalla Santa Sede soltanto nel 1548. Il cammino spirituale degli Esercizi viene fatto in quattro tappe, che vogliono aiutare l’esercitante a "vincere se stesso e mettere ordine nella propria vita, senza lasciarsi influenzare nelle sue scelte da passioni disordinate".
VATICANO - 2006 S. Ignazio di Loyola |
Poi, mediante la contemplazione di Cristo, venuto al mondo per piantarvi il Regno di Dio mediante la potenza del suo Spirito, cercare come donarsi completamente a Lui, per condividerne la missione apostolica (Seconda tappa).
Per contrastare poi le insidie di Satana, che cerca d’impedire la realizzazione dei più belli e nobili ideali, è necessario "consolidarsi" nella decisione presa, contemplando Gesù che fu obbediente fino alla morte di Croce, per la gloria del Padre e la salvezza dei fratelli (Terza tappa).
Infine, la prospettiva della partecipazione alla gloria del Cristo Risorto riempie di gioia il cuore dell’esercitante, che esce dagli Esercizi radicalmente "trasformato". Gli Esercizi terminano con una contemplazione caratteristica ignaziana per ottenere da Dio l’amore più puro e più ardente. Le ultime aspirazioni del cuore di chi esce dagli Esercizi sono: "Prendi tutto, o Signore... Dammi soltanto il tuo amore e la tua grazia: questo mi basta".
E bene ricordare che gli Esercizi vanno fatti e non semplicemente letti. Senza una guida ci si troverebbe presto smarriti in un groviglio di strade senza sbocco!
Alcalà, Salamanca, Parigi
Per prepararsi al lavoro apostolico, Ignazio riprese ad Alcalà gli studi interrotti, cominciando dal latino, senza però smettere di dare gli Esercizi. L’inquisizione ne venne a conoscenza e, sospettando Ignazio di eresia, lo mise in prigione. Liberato, passò a Salamanca. Qui si ripeté il sospetto e, di conseguenza, la condanna al carcere.
VATICANO - 2006 S. Francesco Saverio |
Gli fu ingiunto di non predicare gli Esercizi senza aver prima studiato teologia. Fu così che s’indusse a lasciare la Spagna e trasferirsi a Parigi.
Qui, presso il Collegio di Santa Barbara, condivise la stanza con altri due studenti: Francesco Saverio (spagnolo come lui) e Pietro Favre (proveniente dalla Savoia).
Qui, presso il Collegio di Santa Barbara, condivise la stanza con altri due studenti: Francesco Saverio (spagnolo come lui) e Pietro Favre (proveniente dalla Savoia).
Con Pietro si trovò subito in perfetta armonia di spirito, mentre col Saverio non fu facile intendersi, avendo questi molte ambizioni di guadagno e carriera.
" Che cosa giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua stessa anima? ".
Alla fine Saverio comprese: rinunciò a una sicura prebenda ecclesiastica, si mise alla scuola di Ignazio, con lui fondò la Compagnia, e divenne poi il grande apostolo dell’India e dell’Oriente.
Montmartre
Ignazio aveva un segreto progetto, che presto comunicò ai suoi due amici: consacrarsi all’apostolato nella terra del Signore, la Palestina, e se ciò non fosse possibile, offrirsi al Santo Padre perché disponesse di loro a suo piacimento. L'idea piacque, e a loro si unirono altri quattro studenti: Diego Laynez, Simone Rodrigues, Alfonso Salmeròn e Nicola Bobadilla.
Decisero di formare un gruppo di nome "Compagni di Gesù". Il 15 agosto 1534 salirono alla Cappella di Montmartre per consacrarsi a Dio. Il Favre, ch’era già sacerdote, celebrò la S. Messa, durante la quale tutti promisero con voto di realizzare in castità e povertà quanto intendevano fare. Quel giorno, possiamo dire, nacque la Compagnia di Gesù.
Venezia e Roma
Terminati gli studi e ordinati sacerdoti, si diedero appuntamento a Venezia, in attesa della partenza per l’Oriente. Purtroppo, proprio in quel 1537 si riaccese la guerra tra la "Serenissima" e il vicino Oriente, e la partenza fu rimandata "sine die". Misero allora in atto la seconda parte del voto: andare a Roma e offrirsi come "preti rinnovati" al Papa.
Ignazio, Laynez e Favre precedettero gli altri. Alle porte di Roma accadde un fatto straordinario, a cui Ignazio annesse sempre grande valore. Entrati a pregare in una Cappella detta La Storta, Ignazio ebbe una visione, in cui contemplò Gesù che portava la Croce con Dio Padre al suo fianco. "Voglio che ci serviate", disse Gesù. il Padre aggiunse: "Vi sarò propizio a Roma"; e Ignazio fu posto a fianco di Gesù.
Usciti dalla preghiera, Ignazio disse ai compagni: "Non so che cosa ci attende a Roma, se la persecuzione o la morte". E narrò loro la visione. A Roma il Papa li accolse bene, si fece dar prova della saldezza della loro fede e dottrina cattolica e dette loro il permesso di predicare e celebrare i sacramenti.
Ignazio ricordava spesso al Papa il voto di andare in Terra santa. Ma un giorno il Papa stesso gli disse: "Roma può essere benissimo la vostra Gerusalemme, visto il bene che fate e il grave bisogno della città". Queste parole misero fine al sogno di Ignazio.
Una scuola per i poveri
I Compagni si dispersero per varie città e insegnavano ai "rudi", alla povera gente, le verità basilari della fede. A quei tempi molti ragazzi crescevano senza istruzione per mancanza di mezzi, per cui Ignazio fece apporre un avviso dove egli abitava: "Scuola gratuita".
Una "novità" che gli darà non poche seccature, da parte di altri "interessati" al guadagno. Fu l’inizio d’una serie interminabile di Scuole e Collegi che copriranno l’Italia e l’Europa e daranno lustro alla cosiddetta "Scuola dei Gesuiti".
Missioni vicine e lontane
Montmartre
Ignazio aveva un segreto progetto, che presto comunicò ai suoi due amici: consacrarsi all’apostolato nella terra del Signore, la Palestina, e se ciò non fosse possibile, offrirsi al Santo Padre perché disponesse di loro a suo piacimento. L'idea piacque, e a loro si unirono altri quattro studenti: Diego Laynez, Simone Rodrigues, Alfonso Salmeròn e Nicola Bobadilla.
Decisero di formare un gruppo di nome "Compagni di Gesù". Il 15 agosto 1534 salirono alla Cappella di Montmartre per consacrarsi a Dio. Il Favre, ch’era già sacerdote, celebrò la S. Messa, durante la quale tutti promisero con voto di realizzare in castità e povertà quanto intendevano fare. Quel giorno, possiamo dire, nacque la Compagnia di Gesù.
Venezia e Roma
Terminati gli studi e ordinati sacerdoti, si diedero appuntamento a Venezia, in attesa della partenza per l’Oriente. Purtroppo, proprio in quel 1537 si riaccese la guerra tra la "Serenissima" e il vicino Oriente, e la partenza fu rimandata "sine die". Misero allora in atto la seconda parte del voto: andare a Roma e offrirsi come "preti rinnovati" al Papa.
VATICANO - 2006 Beato Pedro Fabro |
Usciti dalla preghiera, Ignazio disse ai compagni: "Non so che cosa ci attende a Roma, se la persecuzione o la morte". E narrò loro la visione. A Roma il Papa li accolse bene, si fece dar prova della saldezza della loro fede e dottrina cattolica e dette loro il permesso di predicare e celebrare i sacramenti.
POSTE VATICANE - 1956 Presentazione della Regola al Papa Paolo III da parte di S. Ignazio |
Una scuola per i poveri
I Compagni si dispersero per varie città e insegnavano ai "rudi", alla povera gente, le verità basilari della fede. A quei tempi molti ragazzi crescevano senza istruzione per mancanza di mezzi, per cui Ignazio fece apporre un avviso dove egli abitava: "Scuola gratuita".
Una "novità" che gli darà non poche seccature, da parte di altri "interessati" al guadagno. Fu l’inizio d’una serie interminabile di Scuole e Collegi che copriranno l’Italia e l’Europa e daranno lustro alla cosiddetta "Scuola dei Gesuiti".
Missioni vicine e lontane
D.D.R. - 1982 Martin Lutero |
A Roma e nelle altre città i Compagni insegnavano, predicavano, si prendevano cura degli ortani, dei poveri, dei malati negli ospedali. Ignazio pensò anche a recuperare uomini e donne dalla prostituzione.
All'estero, Ignazio si preoccupava molto per l’eresia in Germania. Vi mandò il Favre, che vi spese le migliori energie, fino a morire sulla breccia dopo pochi anni. Vi mandò pure un uomo coltissimo e zelante, il Canisio, che tenne fronte al luteranesimo, riuscendo a salvare metà della Germania dall'invadente eresia.
Nel 1540 fu fatta richiesta al Papa, da parte del re del Portogallo, di mandare missionari in India. All'ambasciatore interessato, il Papa rispose: "Rivolgetevi a Ignazio".
All'estero, Ignazio si preoccupava molto per l’eresia in Germania. Vi mandò il Favre, che vi spese le migliori energie, fino a morire sulla breccia dopo pochi anni. Vi mandò pure un uomo coltissimo e zelante, il Canisio, che tenne fronte al luteranesimo, riuscendo a salvare metà della Germania dall'invadente eresia.
Nel 1540 fu fatta richiesta al Papa, da parte del re del Portogallo, di mandare missionari in India. All'ambasciatore interessato, il Papa rispose: "Rivolgetevi a Ignazio".
E Ignazio sacrificò il suo figlio più caro, Francesco Saverio, segno del suo ardore di salvare tutti.
Generale dei Gesuiti
Generale dei Gesuiti
VATICANO - 1946 Papa Paolo III |
Approvata la Compagnia di Gesù da Paolo III il 27 settembre 1540, si pensò subito all'elezione del Generale. Saverio lasciò il suo voto in iscritto prima di salpare per l’india. Tutti, eccetto Ignazio, votarono per il Fondatore. Dietro le reiterate insistenze di tutti i compagni, Ignazio finalmente accettò l’incarico, che per comune decisione, doveva essere a vita!
Primo suo compito fu quello di scrivere le Costituzioni del nuovo Ordine, il cui nome era - e doveva rimanere - "Compagnia di Gesù", il cui spirito animatore doveva essere quello degli Esercizi spirituali: la maggior gloria di Dio (AMDG: "Ad maiorem Dei gloriam") e il maggior servizio delle anime.
Quanto alla parte pratica riguardante la vita religiosa, Ignazio non ebbe fretta, volendo egli stesso imparare dall’esperienza. E così la parola "fine" non arrivò mai, pensando sempre a qualche novità da aggiungere o cambiare. Le Costituzioni furono perciò pubblicate postume, e senza conclusione.
Il nuovo stile libero di vita religiosa non piacque a tutti nella chiesa. Lo stesso Cardinale Carafa, cofondatore dei Teatini (insieme a S. Gaetano Thiene) ripeteva: "Ma che religiosi siete se non avete neppure il canto e la preghiera corale’?".
CITTA' DEL VATICANO - 1998 San Gaetano Thiene |
E fatto papa col nome di Paolo IV, si astenne dall'intervenire finché visse Ignazio. Poi introdusse la preghiera corale anche tra i Gesuiti. La quale però fu tolta dal suo successore, e si tornò allo stile voluto da Ignazio.
La morte di un Santo
Ignazio soffriva da tempo di gravi disturbi all'apparato digerente, ma i medici non diagnosticarono mai l’origine del suo malessere. Solo dopo la sua morte gli furono scoperti tre grossi calcoli nel fegato. Eppure il santo non smise mai di lavorare, nonostante i lancinanti dolori.
Quando finalmente fu costretto a letto, ridotto in fin di vita, chiese gli ultimi sacramenti. Chiesto il parere del medico curante, il segretario P. Polanco disse a Ignazio di non esserci urgenza.
L’ultima notte, Ignazio, sentendo approssimarsi la fine, pregò il Polanco di recarsi dal S. Padre (Paolo IV) e chiedergli la benedizione "in articulo mortis ". Di nuovo il Polanco si consultò col medico, che rispose la morte non essere imminente. E tutto fu rimandato al giorno dopo.
Ma all’alba del nuovo giorno, 31 luglio 1556, Ignazio entrò in agonia. Polanco, avvisato, si affrettò al palazzo del Papa, che dette di cuore la sua benedizione per il morente. Polanco tornò di corsa a casa, ma quando vi giunse Ignazio era già spirato.
La notizia si sparse subito per tutta Roma:
La morte di un Santo
Ignazio soffriva da tempo di gravi disturbi all'apparato digerente, ma i medici non diagnosticarono mai l’origine del suo malessere. Solo dopo la sua morte gli furono scoperti tre grossi calcoli nel fegato. Eppure il santo non smise mai di lavorare, nonostante i lancinanti dolori.
Quando finalmente fu costretto a letto, ridotto in fin di vita, chiese gli ultimi sacramenti. Chiesto il parere del medico curante, il segretario P. Polanco disse a Ignazio di non esserci urgenza.
L’ultima notte, Ignazio, sentendo approssimarsi la fine, pregò il Polanco di recarsi dal S. Padre (Paolo IV) e chiedergli la benedizione "in articulo mortis ". Di nuovo il Polanco si consultò col medico, che rispose la morte non essere imminente. E tutto fu rimandato al giorno dopo.
Ma all’alba del nuovo giorno, 31 luglio 1556, Ignazio entrò in agonia. Polanco, avvisato, si affrettò al palazzo del Papa, che dette di cuore la sua benedizione per il morente. Polanco tornò di corsa a casa, ma quando vi giunse Ignazio era già spirato.
La notizia si sparse subito per tutta Roma:
"E' morto il santo!",
si ripeteva ovunque. Sì, Ignazio era morto da santo, nel dolore e nella solitudine, abbandonato al volere totale del suo Dio, secondo le parole della sua preghiera di offerta:
"Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la memoria, l’intelletto e
ogni mia volontà..."
ogni mia volontà..."
L’offerta era stata davvero totale fino a quest’ultimo, in cui non nessuno dei suoi figli era accanto al suo letto, eccetto il religioso che lo aveva vegliato per la notte.
Ignazio fu canonizzato il 12 marzo del 1622 insieme a S. Francesco Saverio, S. Filippo Neri, S. Teresa d’Avila e S. Isidoro il contadino.
Di lui fu detto: "Aveva il cuore più grande del mondo".
Le immagini dei francobolli, Area Italiana, sono tratte dal sito web: http://www.ibolli.it
mentre quelli Europei e mondiali sono tratti dal sito web: http://colnect.com/it/stamps
(o Racconto del pellegrino)
[1] Fino a 26 anni fu uomo di mondo, assorbito
dalle vanità. Amava soprattutto esercitarsi nell'uso delle armi, attratto da un
immenso desiderio di acquistare l'onore vano. Con questo spirito si comportò
quando venne a trovarsi in una fortezza assediata dai francesi: tutti erano del
parere di arrendersi, alla sola condizione di avere salva la vita, poiché era
evidente che non potevano difendersi; egli invece presentò al comandante
argomenti così persuasivi che lo convinse a resistere. Tutti gli altri cavalieri erano di parere
contrario, ma trascinati dal suo ardimento e dalla sua decisione, ripresero
coraggio. Il giorno in cui si prevedeva l'attacco egli si confessò a uno di
quei suoi compagni d'arme. Si combatteva già da parecchio tempo quando un
proiettile lo colpì a una gamba e gliela spezzò, rompendogliela tutta; e poiché
l'ordigno era passato tra le gambe, anche l'altra restò malconcia.
[2] Caduto lui, tutta la guarnigione della fortezza
si arrese subito ai francesi; essi, entrando a prenderne possesso, trattarono
con ogni riguardo il ferito, e furono con lui cortesi e benevoli. Rimase a
Pamplona dodici o quindici giorni; poi, in lettiga, fu trasportato nel suo
castello. Là si aggravò; medici e chirurghi furono chiamati da varie parti:
diagnosticarono che le ossa erano fuori posto; o erano state ricomposte male la
prima volta, o si erano spostate durante il viaggio e questo impediva la
guarigione. Per rimettere le ossa a posto bisognava rompere di nuovo la gamba.
Si ripeté quella carneficina. In questa, come in tutti gli interventi prima
subiti o che avrebbe affrontato poi, non gli sfuggì mai un lamento, e non diede
altro segno di dolore che stringere forte i pugni.
[3] Ma continuava a peggiorare: non poteva
nutrirsi e manifestava gli altri sintomi che di solito preannunziano la fine.
Il giorno di San Giovanni, poiché i medici
disperavano di salvarlo, gli fu suggerito di confessarsi. Ricevette dunque i
sacramenti e, la vigilia dei Santi Pietro e Paolo, i medici dichiararono che se
entro la mezzanotte non migliorava, lo si poteva dare per morto. L'infermo era
sempre stato devoto di san Pietro: nostro Signore volle che proprio da quella
mezzanotte cominciasse a riprendersi; e andò così migliorando che di lì a
qualche giorno fu dichiarato fuori pericolo.
[4] Le ossa andavano ormai saldandosi, ma sotto
il ginocchio un osso rimase sovrapposto all'altro di modo che la gamba rimaneva
più corta. Per di più quell'osso sporgeva tanto da apparire una deformità: e
questo lui non lo poteva sopportare; intendeva continuare a seguire il mondo e
quel difetto sarebbe apparso sconveniente; per questo interrogò i medici se si
poteva tagliare quell'osso. Risposero che lo si poteva certo tagliare, ma il
dolore sarebbe stato più atroce di tutti quelli già sofferti: perché l'osso
ormai si era saldato e perché l'intervento era lungo. Nonostante tutto, per suo
capriccio, decise di sottoporsi a quel martirio. Suo fratello maggiore,
spaventato, diceva che non avrebbe mai avuto il coraggio di sottoporsi a tale
atrocità: ma l'infermo la sopportò con la consueta forza d'animo.
[5] Fu incisa la carne e l'osso sporgente fu
segato. Perché la gamba non rimanesse più corta, i medici adottarono vari
rimedi: applicarono vari unguenti e la tennero continuamente in trazione;
furono giorni e giorni di martirio. Ma nostro Signore gli ridava salute; andò
migliorando a tal punto che si trovò completamente ristabilito. Solo che non
poteva reggersi bene sulla gamba e doveva per forza stare a letto. Poiché era un appassionato lettore di quei
libri mondani e frivoli, comunemente chiamati romanzi di cavalleria, sentendosi
ormai in forze ne chiese qualcuno per passare il tempo. Ma di quelli che era
solito leggere, in quella casa non se ne trovarono. Così gli diedero una Vita Christi
e un libro di vite di santi in volgare.
[6] Percorrendo più volte quelle pagine restava
preso da ciò che vi si narrava. Ma quando smetteva di leggere talora si
soffermava a pensare alle cose che aveva letto, altre volte ritornava ai
pensieri del mondo che prima gli erano abituali. Tra le molte vanità che gli si
presentavano alla mente, un pensiero dominava il suo animo a tal punto che ne
restava subito assorbito, indugiandovi come trasognato per due, tre o quattro
ore: andava escogitando cosa potesse fare in servizio di una certa dama, di
quali mezzi servirsi per raggiungere la città dove risiedeva; pensava le frasi
cortesi, le parole che le avrebbe rivolto; sognava i fatti d'arme che avrebbe compiuto
a suo servizio. In questi sogni restava così rapito che non badava
all'impossibilità dell'impresa: perché quella dama non era una nobile
qualunque; non era una contessa o una duchessa; il suo rango era ben più
elevato di questi.
[7] Ma nostro Signore lo assisteva e operava
in lui. A questi pensieri ne succedevano altri, suggeriti dalle cose che
leggeva. Così leggendo la vita di nostro Signore e dei santi si soffermava a
pensare e a riflettere tra sé: "E se anch'io facessi quel che ha fatto san
Francesco o san Domenico?". In questo modo passava in rassegna molte
iniziative che trovava buone, e sempre proponeva a se stesso imprese difficili
e grandi; e mentre se le proponeva gli sembrava di trovare dentro di sé le
energie per poterle attuare con facilità. Tutto il suo ragionare era un
ripetere a se stesso: san Domenico ha fatto questo, devo farlo anch'io; san
Francesco ha fatto questo, devo farlo anch'io. Anche queste riflessioni lo
tenevano occupato molto tempo. Ma quando
lo distraevano altre cose, riaffioravano i pensieri di mondo già ricordati, e
pure in essi indugiava molto.
L'alternarsi di pensieri così diversi durò a lungo. Si trattasse di quelle gesta mondane che
sognava di compiere, o di queste altre a servizio di Dio che gli si presentavano
all'immaginazione, si tratteneva sempre sul pensiero ricorrente fino a tanto
che, per stanchezza, lo abbandonava e s'applicava ad altro.
[8] C'era però una differenza: pensando alle
cose del mondo provava molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava
si sentiva vuoto e deluso. Invece,
andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le
austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo
lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo
lasciavano soddisfatto e pieno di gioia.
Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa
differenza. Finché una volta gli si aprirono
un poco gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi:
dall'esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri
allegro; e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si
agitavano in lui: uno del demonio, l'altro di Dio.
Questa
fu la prima riflessione che egli fece sulle cose di Dio. In seguito, quando si applicò agli Esercizi,
proprio di qui cominciò a prendere luce sull'argomento della diversità degli
spiriti.
[9] Con tutta la luce ricavata da questa
esperienza si mise a riflettere più seriamente sulla vita passata e sentì un
grande bisogno di farne penitenza.
Allora gli rinasceva il desiderio di imitare i santi, senza dar peso ad
altro che a ripromettersi, con la grazia di Dio, di fare lui pure come essi
avevano fatto. Ma la cosa che prima di
tutte desiderava fare, appena fosse guarito, era di andare a Gerusalemme, come
si è detto sopra, imponendosi quelle grandi austerità e digiuni a cui sempre
aspira un animo generoso e innamorato di Dio.
[10] Questi suoi santi desideri andavano
cancellando i pensieri di prima, e furono anzi confermati da una visione in
questo modo: una notte, mentre era ancora sveglio, vide chiaramente un'immagine
di nostra Signora con il santo bambino Gesù.
Poté contemplarla a lungo provandone grandissima consolazione. Poi gli sopravvenne un tale disgusto di tutta
la vita passata, specialmente delle cose carnali, da sembrargli che fossero
sparite dall'anima tutte le immaginazioni prima così radicate e vivide. Da quel momento a questo agosto del '53 in
cui si scrivono queste memorie, non diede mai neppure il più piccolo consenso a
sollecitazioni sensuali: e proprio questo effetto permette di giudicare che la
cosa veniva da Dio. Egli però non osava
affermarlo, ma si limitava a esporre quanto si è detto. Comunque, il comportamento esterno fece
conoscere al fratello e a tutti gli altri di casa la trasformazione che si era
compiuta dentro la sua anima.
[11] Egli continuava nelle sue letture e
perseverava nei suoi buoni propositi, senza occuparsi d'altro. Quando si intratteneva con quelli di casa,
impiegava tutto il tempo in cose di Dio e questo arrecava loro profitto
spirituale. Poiché alla lettura di quei libri provava ora molto gusto, gli
venne l'idea di stralciare alcuni passi più significativi della vita di Cristo
e dei santi. Perciò - dal momento che
ormai stava alzato e si moveva per casa - si mise a compilare con molta
diligenza un libro.
Esso arrivò a
occupare quasi 300 fogli, in quarto, completamente scritti.
Scriveva le parole di Gesù in rosso, quelle
di nostra Signora in azzurro, su carta lucida a righe, con elegante scrittura,
mettendo a profitto la sua grafia
molto bella. Impiegava il suo tempo in
parte a scrivere, in parte a pregare. La
sua consolazione più grande era guardare il cielo e le stelle; li contemplava
spesso e per lungo tempo, perché da questo gli nasceva dentro un fortissimo
impulso a servire nostro Signore. Con il
pensiero fisso al suo proposito, avrebbe voluto essere già completamente
ristabilito per mettersi in cammino.
[12] Progettando quello che avrebbe fatto al suo
ritorno da Gerusalemme allo scopo di vivere in penitenza continua, gli si
affacciava l'idea di ritirarsi nella Certosa di Siviglia, senza dire chi era
per essere considerato meno, e lì di non nutrirsi che di erbe. Altre volte però riemergeva il pensiero delle
austerità che intendeva affrontare andando per il mondo, e allora il desiderio
della Certosa si affievoliva nel timore di non potervi esercitare quell'odio di
sé che ormai aveva concepito. E tuttavia
diede incarico a un domestico che andava a Burgos di chiedere informazioni
sulla Regola della Certosa, e le notizie che ne ebbe gli piacquero. Ma persisteva il timore sopra accennato. Inoltre era tutto assorbito dal viaggio che
intendeva intraprendere al più presto, mentre il progetto della Certosa non si
sarebbe potuto affrontare se non dopo il ritorno.
Perciò a questo non dedicò molta
attenzione; ma, sentendosi tornare le forze, decise che era tempo di
partire. Disse dunque a suo fratello:
"Signore, come sapete il duca di Nájera è già informato che io sto meglio.
Sarà bene che io vada a Navarrete". (Là si trovava il duca in quel
momento). Allora suo fratello cominciò a
fargli vedere una stanza dopo l'altra del castello, e tutto angustiato lo
supplicava di non andare incontro a pericoli, di considerare piuttosto quanta
fiducia riponeva in lui la sua gente, e di quale ascendente poteva godere.
Il fratello e
quelli di casa avevano intuito che egli cercava di mettere in atto qualche
grande cambiamento.
E aggiungeva altri argomenti del genere,
tutti allo scopo di distoglierlo dal buon proposito che aveva in mente. Ma la sua risposta fu tale che, senza
offendere la verità - poiché di questo ormai si faceva grande scrupolo -, egli
riuscì a liberarsi dalle insistenze del fratello.
[13] Parti
dunque cavalcando una mula. Un altro suo
fratello lo volle accompagnare fino a Oñate, ed egli lungo il viaggio lo
persuase a fare una veglia insieme con lui nel santuario di Nostra Signora di
Aránzazu. Là passò la notte in preghiera
per ottenere nuove energie in vista del suo viaggio. Poi lasciò suo fratello a Oñate, in casa di
una sorella a cui aveva fatto visita, e lui si recò a Navarrete. Ricordandosi che in casa del duca gli
dovevano un certo numero di ducati giudicò opportuno riscuoterli. A questo scopo mise per iscritto una
richiesta al tesoriere; costui fece osservare che non aveva denaro, ma quando
il duca lo seppe dichiarò che il denaro poteva mancare per tutto il resto, ma
non per Loyola. A lui anzi, per la
fiducia che si era acquistata in passato, intendeva affidare un buon incarico,
se lo avesse voluto accettare. Riscosse
il denaro e lo fece consegnare a certe persone verso le quali aveva degli
obblighi; ma una parte la destinò al restauro e al miglior ornamento di un'immagine
di nostra Signora che era in cattivo stato.
Quindi licenziò i due servitori che lo accompagnavano e da solo parti da
Navarrete, sulla sua mula, verso Montserrat.
Dal giorno in cui
era partito dal suo castello si flagellava sempre ogni notte
[14] Lungo il cammino gli accadde un fatto che è
opportuno riferire perché serve a comprendere in che modo Dio agiva con
quest'anima. Con tutti i suoi grandi
desideri di servire Dio in quanto riusciva a capire, essa era ancora cieca:
quando decideva di fare grandi penitenze, non badava tanto a scontare i propri
peccati quanto a far cosa gradita a Dio e piacergli. Così pure quando gli veniva in animo di
compiere una penitenza fatta dai santi, si proponeva di fare altrettanto e
molto di più. Provava un grandissimo orrore per i peccati della vita passata;
ma il desiderio di compiere cose grandi per il servizio di Dio era così vivo
che, pur non giudicando che i suoi peccati fossero già perdonati, tuttavia
nelle penitenze che si imponeva non pensava molto ad essi. E si consolava
tutto, solo per queste considerazioni, senza darsi pensiero delle cose
interiori, senza rendersi conto di che cosa fossero l'umiltà, la carità, la
pazienza, e di come discernere la regola e la misura di queste virtù. Invece suo unico obiettivo erano quelle
grandi azioni esteriori, perché le avevano fatte i santi a gloria di Dio, senza
porre mente ai loro aspetti più propriamente spirituali.
[15] Avvenne dunque che mentre andava per la
sua strada lo raggiunse un moro che cavalcava un mulo. Si misero a conversare e il discorso cadde su
nostra Signora. Il moro sosteneva che,
certo, la Vergine aveva concepito senza intervento d'uomo; ma che avesse
partorito restando vergine, questo non lo poteva ammettere; e a sostegno di ciò
adduceva i motivi naturali che gli si presentavano alla mente. Da questa opinione il pellegrino, per quanti
argomenti portasse, non riuscì a smuoverlo.
Poi il moro si allontanò velocemente, tanto che lo perse di vista; ed
egli rimase pensieroso, riflettendo su quanto era intervenuto con
quell'uomo. E insorsero in lui impulsi
che gli provocavano un senso di scontentezza sembrandogli di aver mancato al
suo dovere, e lo movevano a sdegno contro il moro. Gli pareva di aver fatto male a permettere
che egli facesse quelle affermazioni su nostra Signora, e di essere obbligato a
difenderne l'onore. Gli veniva voglia di
andarlo a cercare e di prenderlo a pugnalate per le affermazioni che aveva
fatto. Restò a lungo in subbuglio,
combattuto da questi impulsi, e alla fine rimase perplesso senza sapere cosa
era tenuto a fare.
Prima di allontanarsi il moro gli aveva
detto che era diretto a una località poco distante, lungo il suo stesso
cammino, era molto vicina alla strada maestra, ma questa non l'attraversava.
[16] Stanco di riflettere cosa era meglio fare,
senza vedere una soluzione sicura a cui attenersi, decise così: lasciare andare
la mula a briglia sciolta fino al punto in cui le strade si dividevano. Poi, se la mula avesse imboccato la via del
paese, avrebbe raggiunto il moro e lo avrebbe pugnalato; se invece avesse
proseguito per la strada maestra, lo avrebbe lasciato perdere. Seguì questa idea; l'abitato era distante
solo trenta o quaranta passi e la strada che vi conduceva era larga e comoda;
ma nostro Signore fece sì che la mula la lasciasse da parte e scegliesse la via
principale. Giunto a una grossa borgata
prima di Montserrat, decise di comprarvi l'abito che intendeva indossare e con
il quale sarebbe andato a Gerusalemme. Acquistò dunque della tela da sacco,
grossolana e molto ruvida, e con quella si fece subito fare una tunica lunga
fino ai piedi, ma non l'indossò subito; comprò anche un bastone da viaggio e
una borraccia, e legò tutto all'arcione della mula.
Comprò anche un
paio di sandali, ma ne calzava uno solo; questo non per fare una cosa strana:
aveva una gamba tutta malconcia e fasciata con una benda, tanto che, pur
andando a cavallo, ogni sera se la trovava gonfia. Gli parve dunque necessario calzare quel piede.
[17] Riprese il cammino verso Montserrat
riflettendo, come di consueto, a quanto voleva intraprendere per amore di
Dio. Poiché aveva ancora la mente piena
delle gesta narrate in Amadigi di
Gaula e in altri romanzi del genere,
gli venne l'idea di fare qualcosa di simile.
Decise che avrebbe fatto una veglia d'armi per una notte intera, senza
sedersi né appoggiarsi, ma solo restando in piedi o in ginocchio davanti
all'altare di Nostra Signora di Montserrat, dove aveva in animo di lasciare i
suoi abiti per vestire le armi di Cristo.
Ripreso dunque il cammino sempre immerso, com'era sua abitudine, in
questi suoi progetti, giunse a Montserrat.
Dopo essersi trattenuto in preghiera, prese accordi con un confessore;
poi, nel corso di tre giorni si impegnò nella sua confessione generale, mettendo
tutto per iscritto. Affidò pure al
confessore l'incarico di far ritirare la mula e di appendere la spada e il
pugnale nel santuario, all'altare di nostra Signora. Fu la prima persona a cui confidò le sue
decisioni, perché fino a quel momento non le aveva manifestate ad alcun
confessore.
[18] La vigilia di Nostra Signora di marzo
[festa dell'Annunciazione] del 1522, verso notte, in tutta segretezza andò a
cercare un povero e, spogliatosi di tutti i suoi abiti, glieli diede, e lui
indossò la tunica che ormai solo desiderava.
Poi andò a prostrarsi davanti all'altare di nostra Signora e un pò in
ginocchio e un pò in piedi con il bordone in mano, vi trascorse tutta le
notte. Partì all'alba per non essere
riconosciuto. Non prese la strada che
portava a Barcellona perché vi avrebbe incontrato molte persone che,
conoscendolo, lo avrebbero ossequiato; ma si diresse verso un paese chiamato
Manresa, dove si proponeva di prendere alloggio in un ospizio per alcuni
giorni. Voleva anche scrivere alcune
cose in un suo quaderno che custodiva gelosamente e che gli dava molta
consolazione. Era già a una lega da
Montserrat quando lo raggiunse un tale che veniva di corsa a cercarlo e che gli
domandò se era stato davvero lui a dare dei vestiti a un povero, come questi
sosteneva. Rispose di sì, e per
compassione di quel mendicante a cui aveva regalato i suoi abiti gli vennero le lacrime agli occhi: si rendeva conto
che lo avevano maltrattato supponendo che li avesse rubati. Per quanto cercasse di sottrarsi alla stima
della gente, ben presto a Manresa si fece un gran parlare di lui, essendo
giunta notizia di quello che aveva fatto a Montserrat. Poi la fama crebbe, e si andava raccontando
più del vero: che aveva lasciato un gran patrimonio, eccetera.
[19] A Manresa ogni giorno andava a chiedere
l'elemosina. Non mangiava carne e non
beveva vino anche se gliene davano. Ma
di domenica non digiunava e se gli offrivano un pò di vino lo beveva. Secondo la moda del tempo, egli aveva sempre
curato con molta ricercatezza la sua capigliatura, che era molto bella. Perciò decise di lasciar crescere i capelli
incolti, senza pettinarli o tagliarli, e senza proteggerli in alcun modo né la
notte né il giorno. Per la stessa
ragione si lasciò crescere le unghie dei piedi e delle mani: anche in questo
era stato ricercato. Durante la
permanenza nell'ospizio gli accadde spesso, in pieno giorno, di vedere
nell'aria, vicino a sé, una cosa che lo riempiva di consolazione, perché era
bellissima, piena di fascino. Non
riusciva a comprendere che genere di cosa fosse: in qualche modo gli sembrava
che avesse forma di serpente, con molti punti che splendevano come occhi, anche
se non lo erano. Nel contemplarla
provava molta gioia e consolazione, e quanto più spesso la vedeva tanto più cresceva
la consolazione; quando invece essa scompariva ne provava dispiacere.
[20] Fino a questo momento era rimasto sempre
quasi allo stesso grado di vita interiore, caratterizzato da gioia molto
costante, ma senza alcuna penetrazione delle cose interiori dello spirito. Nei giorni in cui perdurò quella visione
(continuò infatti per molti giorni), o poco prima che cominciasse, fu assalito
da un pensiero violento che lo molestava mettendogli in evidenza le difficoltà
di questa sua vita. Pareva che qualcuno
gli dicesse dentro l'anima: "Come potrai tu vivere fino a settant'anni
sopportando questo genere di vita?".
Ma a tale insinuazione ribatté, pure interiormente, con grande
risolutezza (avvertendo bene che proveniva dal nemico): "Miserabile! Hai
forse tu potere di garantirmi un'ora sola di vita?". Così vinse quella tentazione e ritornò
tranquillo. Questa fu la prima
tentazione che ebbe dopo il cambiamento di vita sopra descritto. La superò entrando in una chiesa. In questa ogni giorno ascoltava la messa
solenne, vespro e compieta in canto; e nel parteciparvi provava grande
consolazione. Ordinariamente durante la
messa leggeva la Passione; e si sentiva sempre animato da un impegno costante.
[21] Ma subito dopo la tentazione ora riferita,
cominciò a sperimentare un accentuato alternarsi di stati d'animo opposti. A volte si sentiva così arido da non trovare
gusto alcuno nella preghiera vocale, nell'ascoltare la messa, e in ogni altra
forma di meditazione che cercasse di fare.
Altre volte sperimentava, forte e improvviso, lo stato d'animo
contrario, tanto da sembrargli scomparsa ogni tristezza e desolazione: era come
quando ci si toglie la cappa dalle spalle.
Allora cominciò a spaventarsi di questi cambiamenti che non aveva mai
provati fino a quel momento. E si
domandava: "Di che natura è questa vita nuova che ho intrapreso?" In
quel tempo si intratteneva ancora, talvolta, con persone spirituali che, avendo
fiducia in lui, desideravano parlargli.
Non che avesse conoscenza della vita spirituale, ma probabilmente
perché, nel parlare, egli mostrava molto fervore e molta decisione di
progredire nel servizio di Dio. A
Manresa c'era allora una donna, molto avanti negli anni e nelle cose di Dio;
come tale era nota in molte parti della Spagna, tanto che il Re cattolico una
volta l'aveva mandata a chiamare per trattare con lei di certi argomenti. Questa donna intrattenendosi un giorno con il
nuovo soldato di Cristo gli disse: "Piaccia al mio Signore Gesù Cristo di
voler apparire a voi, una volta!" A queste parole egli si spaventò,
avendole interpretate così materialmente: come può apparire a me Gesù Cristo?
Frattanto perseverava nella consuetudine di confessarsi e di comunicarsi ogni
domenica.
[22] Ma in questa pratica cominciò a essere
tormentato da molti scrupoli. La
confessione generale fatta a Montserrat era stata, certo, molto accurata, e
l'aveva messa tutta per iscritto, come s'è detto. A volte però gli sembrava di aver omesso
alcune colpe, e questo lo affliggeva molto.
Se ne confessava, anche, eppure non rimaneva soddisfatto. Allora si mise a cercare uomini spirituali
che gli suggerissero un rimedio a questi scrupoli, ma niente gli giovava. Infine, un teologo della cattedrale,
predicatore in essa e uomo molto spirituale, un giorno in confessione gli
consigliò di mettere per iscritto tutto ciò che riusciva a ricordare. Fece così, ma anche dopo essersi confessato
in questo modo riaffioravano ogni volta scrupoli sempre più sottili, di maniera
che si sentiva molto angustiato. Si
rendeva conto che quegli scrupoli gli recavano grave danno e che doveva
disfarsene, ma da solo non ci riusciva.
Qualche volta gli sembrava che se il confessore, in nome di Gesù Cristo,
gli avesse imposto di non accusare più nessuna colpa del passato, questo
sarebbe stato per lui l'aiuto efficace.
E desiderava che il confessore lo facesse, ma non osava suggerirglielo.
[23] Fu appunto il confessore, senza bisogno di
suggerimenti, che gli comandò di non accusare più alcuna colpa passata, salvo
che gliene venisse un ricordo molto chiaro.
Ma poiché tutte le cose che veniva ricordando per lui erano molto
chiare, quel comando non gli servì a nulla, e continuava a essere
tribolato. Nel frattempo alloggiava in
una cameretta che i domenicani gli avevano messo a disposizione nel loro
convento, ed era fedele alle sue sette ore di preghiera, in ginocchio,
levandosi regolarmente a mezzanotte e compiendo tutti gli altri esercizi di cui
si è parlato. Ma da tutto questo pregare
non traeva rimedio ai suoi scrupoli che lo tormentavano già da molti mesi. Un giorno, sentendosi più che mai afflitto,
si buttò a pregare, e tutto infervorato cominciò a implorare Dio a voce alta
esclamando: "Soccorrimi tu, Signore, perché non trovo nessun aiuto negli
uomini, né in altra creatura. Se solo
fossi certo di poterlo trovare, nessuna fatica mi sembrerebbe troppo
gravosa. Mostrami tu, Signore, dove
posso trovarlo. Anche se, per averne
aiuto, dovessi andar dietro al fiuto di un cane, lo farò".
[24] Spesso, travolto da questi pensieri, era assalito
da violente tentazioni di gettarsi da una grande apertura che c'era in quella
camera, vicino al posto dove pregava.
Ma, sapendo che è peccato uccidersi, tornava a gridare: "Signore,
non farò mai cosa che ti offenda"; e, come in precedenza, insisteva nel
ripetere questa preghiera. Gli tornò a
mente la storia di un santo che, per ottenere da Dio una grazia che gli stava
molto a cuore, digiunò per molti giorni finché la ottenne. Ci pensò su a lungo, poi decise di fare
altrettanto: stabili che non avrebbe né mangiato né bevuto fino a tanto che Dio
non lo soccorresse o egli si sentisse ormai prossimo a mancare; perché se gli
fosse accaduto di trovarsi agli estremi, al punto da soccombere se non
mangiava, avrebbe chiesto del pane e l'avrebbe mangiato (come se, una volta
ridotto a tal punto, uno fosse in grado di chiedere o di mangiare!).
[25] Questa decisione la prese una domenica dopo
essersi comunicato. Tutta la settimana
perseverò a non mettere nulla in bocca, senza mai omettere di compiere i consueti
esercizi, di andare all'ufficio divino, di fare la sua meditazione in
ginocchio, anche a mezzanotte, eccetera.
La domenica successiva, dovendo andare a confessarsi, poiché era solito
esporre minuziosamente tutto quello che faceva, al confessore manifestò pure
che quella settimana non aveva mangiato nulla.
Il confessore gli comandò di sospendere quel digiuno, ed egli, pur
sentendosi ancora in forze, gli obbedì.
Quel giorno e il successivo rimase libero dagli scrupoli. Ma il terzo giorno, che era martedì, mentre
stava in preghiera gli tornò il pensiero dei suoi peccati; quasi mettendole in
fila, ripercorreva una dopo l'altra le colpe della vita passata, e gli sembrava
di doversene ancora confessare. Dopo
tutto questo groviglio di pensieri sopravvenne un gran disgusto della vita che
stava conducendo e un insistente impulso ad abbandonarla. Ma a questo punto piacque al Signore che egli
si svegliasse come da un sogno. E poiché,
in seguito alle illuminazioni che Dio gli aveva dato, aveva ormai qualche
esperienza della diversità degli spiriti, si soffermò a considerare attraverso
quali gradi intermedi era maturata questa condizione spirituale; e stabilì con
grande chiarezza di non confessare più nessuna colpa passata. A partire da quel
giorno egli rimase libero da quegli scrupoli, convinto che era stato nostro
Signore a liberarlo per sua misericordia.
[26] Al di fuori delle sette ore di preghiera,
impiegava il suo tempo ad aiutare nella vita spirituale alcune persone che si
rivolgevano a lui. Tutto il resto della
giornata lo occupava in cose di Dio e a riflettere su ciò che aveva meditato o
letto quel giorno. Quando poi stava per
coricarsi, spesso gli sopravvenivano grandi ispirazioni e consolazioni
spirituali che gli sottraevano buona parte del tempo destinato al sonno, il
quale era già poco. Riflettendo di tanto
in tanto su questo fenomeno, si rese conto che a conversare con Dio aveva
dedicato già molte ore, e in più aveva a disposizione il resto del giorno. Da qui gli nacque il sospetto che quelle
ispirazioni non provenissero dallo spirito buono; e giunse alla conclusione che
era meglio sbarazzarsene e lasciare al sonno il tempo che aveva stabilito. Così fece.
[27] Continuava ad astenersi dal mangiare carne:
in questo era così deciso che non gli passava neppure per la mente di cambiare;
ma una mattina, appena alzato, gli si rappresentò dinanzi della carne
imbandita: era come se la vedesse con gli occhi, senza che fino a quel momento
ne avesse provato alcun desiderio.
Simultaneamente avvertì un deciso assenso della volontà perché da allora
in poi ne mangiasse. Di tale assenso,
pur ricordando bene il proposito di prima, non poteva avere dubbi, ma solo
certezza che doveva mangiare carne. In
seguito ne parlò al suo confessore, e questi gli suggerì di riflettere se per
caso non si trattasse di una tentazione.
Ma egli, pur riesaminando la cosa, non poté mai dubitarne. In questo periodo Dio si comportava con lui
come fa un maestro di scuola con un bambino: gli insegnava. Ciò poteva dipendere o dal suo ingegno rozzo
e incolto, o dal non avere altri che lo istruisse, o dal fatto che aveva
ricevuto da Dio ferma volontà di servirlo.
In ogni caso era per lui evidente, e lo fu poi sempre, che Dio lo
trattava in quel modo; anzi crederebbe di offendere sua divina Maestà se
ammettesse dubbi a questo proposito. Di
tale insegnamento da parte di Dio si può avere un'idea nei cinque punti che
seguono.
[28] Primo. Sentiva profonda
devozione verso la santissima Trinità.
Ogni giorno rivolgeva la sua preghiera alle tre Persone, distintamente;
poi anche alla santissima Trinità.
Perciò gli veniva da domandarsi come mai rivolgesse quattro preghiere
alla Trinità; ma questo ragionamento lo disturbava poco o nulla, come cosa di
scarsa importanza. Un giorno, mentre sui
gradini del convento recitava l'ufficio di nostra Signora, la sua mente
cominciò ad essere rapita: era come se vedesse la santissima Trinità sotto
figura di tre tasti d'organo; e questo con un profluvio di lacrime e di
singhiozzi incontenibili. Quel mattino
prese parte a una processione che partiva di là; e non riuscì un solo istante a
trattenere le lacrime fino all'ora del pranzo.
Dopo pranzo non riusciva a parlare d'altro che della santissima Trinità,
portando molti paragoni e molto diversi, e sentendo profonda gioia e
consolazione. Questa esperienza gli è
rimasta così impressa per tutta la vita da sentire poi sempre intensa devozione
nel rivolgere la sua preghiera alla santissima Trinità.
[29] Secondo. Una volta gli si rappresentò nell'intelletto,
insieme con intensa gioia spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il
mondo. Gli pareva di vedere una cosa
bianca dalla quale uscivano raggi di luce, ed era Dio che irradiava luce da
quella cosa. Ma di questi fatti egli non
riusciva a darsi ragione, e non ricordava esattamente le conoscenze spirituali
che in quei momenti Dio gli imprimeva nell'anima.
Terzo. Sempre a Manresa, dove si trattenne quasi un
anno, quando cominciò ad essere consolato da Dio e vide i buoni risultati nelle
persone che aiutava, abbandonò gli eccessi di austerità che prima si era
imposto. Adesso si tagliava le unghie e
i capelli. A Manresa dunque, ascoltando
un giorno la messa nella chiesa del convento, alla elevazione del Corpo del
Signore vide con gli occhi interiori come dei raggi bianchi che scendevano
dall'alto. Questo fenomeno, dopo tanto
tempo, egli non lo sa ricostruire bene; ma ciò che allora comprese, con tutta
chiarezza, fu percepire come era presente in quel santissimo Sacramento Gesù
Cristo nostro Signore.
Quarto. Molte volte, e per molto tempo, mentre era in
preghiera, gli accadeva di vedere con gli occhi interiori l'umanità di Cristo,
e quello che vedeva era come un corpo bianco, non molto grande né molto
piccolo, ma senza alcuna distinzione di membra.
Ebbe questa esperienza interiore, a Manresa, molte volte; dicendo venti
o quaranta volte non crederebbe di mentire.
Un'altra volta l'ebbe a Gerusalemme, e un'altra mentre era in cammino
nei pressi di Padova. Ha visto anche
nostra Signora, nello stesso modo, senza distinzione di membra. Tutte queste esperienze lo confermarono
allora nella fede e gliene diedero poi sempre tanta fermezza da pensare molte
volte che, se non ci fosse la Scrittura a insegnarci queste verità, era pronto a morire in loro testimonianza
anche solo in forza di quanto aveva visto.
[30] Quinto. Una volta si recò, per sua devozione, a una
chiesa distante da Manresa poco più di un miglio: credo che si chiamasse San
Paolo. La strada correva lungo il
fiume. Tutto assorbito nelle sue
devozioni, si sedette un poco con la faccia rivolta al torrente che scorreva in
basso. E mentre stava lì seduto, gli si
aprirono gli occhi dell'intelletto: non ebbe una visione, ma conobbe e capì
molti principi della vita interiore, e molte cose divine e umane; con tanta
luce che tutto gli appariva come nuovo.
Non è possibile riferire con chiarezza le pur numerose verità
particolari che egli allora comprese; solo si può dire che ricevette una grande
luce nell'intelletto.
Il rimanere con
l'intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli pareva di essere un
altro uomo, o che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima.
Tanto che se fa conto di tutte le cose
apprese e di tutte le grazie ricevute da Dio, e le mette insieme, non gli sembra
di aver imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue
anni compiuti, come in quella sola volta.
[31] Rimase un certo tempo in quello stato; poi
andò a inginocchiarsi davanti a una croce, lì vicino, per ringraziare Dio. E proprio lì gli apparve quella figura che
già molte altre volte aveva contemplato e che non era mai riuscito a
comprendere: cioè quella cosa già descritta sopra, che gli pareva bellissima e
con molti occhi. Ma ora, stando davanti
alla croce, vide molto bene che quella cosa tanto affascinante non aveva la
luminosità consueta. Ed ebbe una
chiarissima conoscenza, a cui la volontà aderiva totalmente, che quello era il
demonio. E anche in seguito, per molto
tempo, continuò ad apparirgli spesso. Ma
egli, in segno di scherno, la scacciava con il bastone che aveva sempre con sé.
[32] A Manresa una volta si ammalò. La febbre, altissima, lo ridusse in punto di
morte, tanto che ebbe la netta sensazione che l'anima stava proprio per
andarsene. In quella situazione gli
entrò in testa un pensiero che gli
insinuava di essere santo. Ne provò
tanta sofferenza che si diede a respingerlo energicamente mettendo avanti i
suoi peccati. Lo faceva patire di più quel
pensiero che la febbre stessa: ma, per quanto si sforzasse di vincerlo, non ci
riusciva. Poi la febbre diminuì e il
pericolo di morte fu superato. Allora
egli si mise a scongiurare alcune signore, venute a fargli visita, che se lo avessero
visto ancora in punto di morte, per amore di Dio lo sgridassero ad alta voce,
chiamandolo peccatore e ricordandogli di pensare alle offese che aveva fatte a
Dio.
[33] Un'altra volta, durante la traversata da
Valencia verso l'Italia, sul mare agitato da violenta tempesta, il timone della
nave si schiantò e la situazione divenne così grave che, a giudizio suo e di
molti passeggeri, con i soli mezzi umani non si sarebbe scampati alla
morte. In questo frangente, pur
esaminandosi con diligenza per disporsi a morire, non riusciva a sentire timore
dei suoi peccati o di una eventuale condanna, ma provava grande confusione e
dolore ritenendo di non avere impiegato bene i doni e le grazie che Dio nostro
Signore gli aveva concesso. Anche nel 1550 stette molto male a causa di una
grave malattia che, a giudizio suo e di altri, pareva l'ultima. In questa occasione il pensiero della morte
gli procurava tanta gioia ed era tanto consolato spiritualmente per dover
morire che si scioglieva tutto in lacrime.
Questa commozione gli divenne così abituale che spesso doveva smettere
di pensare alla morte per non provare così intensa consolazione.
[34] Al sopraggiungere dell'inverno si ammalò
gravemente. Per curarlo le autorità
cittadine lo fecero accogliere in casa di un certo Ferrera, che più tardi fu a
servizio di Baldassarre de Faria. Là
ebbero cura di lui con molte attenzioni, e parecchie signore della buona
società, spinte dalla devozione che già provavano per lui, venivano ad
assisterlo durante la notte. Quando si
riprese da questa malattia rimase però molto debole e con frequenti dolori di
stomaco. Per questo motivo e perché
quell'inverno era molto rigido, lo convinsero a indossare un vestito, a
calzarsi e a tenere un copricapo.
Riuscirono a fargli accettare due casacche di panno grossolano e una
berretta dello stesso panno, piccola come uno zucchetto. In quel periodo accadeva che, molti giorni,
era avido di intrattenersi su cose spirituali e di trovare persone che ne
fossero capaci. Intanto si avvicinava il tempo in cui si era prefisso di partire
alla volta di Gerusalemme.
[35] Perciò all'inizio del 1523 si recò a
Barcellona per imbarcarsi, Alcuni
gli si offrirono per accompagnarlo, ma egli preferì partire da solo: suo unico
desiderio era avere soltanto Dio come rifugio.
A questo proposito, un giorno alcuni gli raccomandarono, non sapendo
egli né l'italiano né il latino, di prendere con sé un certo compagno che gli
sarebbe stato di grande aiuto, e ne facevano gran lodi. Ribatté che neppure se fosse figlio o
fratello del duca di Cardona lo avrebbe accettato per compagno; egli intendeva
esercitarsi in tre virtù: carità, fede, speranza; prendendo con sé un compagno,
se avesse avuto fame, da lui si sarebbe aspettato l'aiuto, se fosse inciampato,
da lui poteva sperare una mano per rialzarsi.
Così avrebbe posto la sua fiducia in lui e avrebbe finito per
affezionarglisi a motivo di tutte quelle attenzioni. Egli invece voleva riporre questa fiducia,
questo affetto e questa speranza solo in Dio.
Così diceva e così sentiva nel profondo del cuore. Per questa convinzione avrebbe voluto
imbarcarsi non solo senza compagni, ma anche senza alcuna provvista. Quando poi incominciò le pratiche per
l'imbarco, non avendo denaro ottenne, sì, dal padrone della nave di salire a
bordo gratuitamente, ma a condizione che portasse con sé una certa quantità di
biscotto per il suo sostentamento.
Altrimenti, per nessuna ragione al mondo lo avrebbe lasciato salire.
[36] Quando andò ad acquistare il biscotto, lo
assalirono nuove perplessità: "E' questa la speranza, la fede che tu
riponevi in Dio e che non avresti mai lasciato?", eccetera. Questo dubbio era così acuto che lo
angustiava molto. Non sapeva che cosa
fare: da una parte e dall'altra vedeva ragioni valide. Decise dunque di rimettersi al suo
confessore. Gli manifestò il suo vivo
desiderio di cercare la perfezione e di scegliere ciò che poteva dare maggior
gloria a Dio, e gli espose i motivi che lo facevano esitare a prendere con sé
provviste. Il confessore fu del parere
che mendicasse il necessario e lo prendesse con sé. Una signora, mentre le chiedeva l'elemosina,
gli domandò verso quale meta intendeva imbarcarsi. Rimase un pò incerto se dirglielo o no. Alla fine si limitò a manifestarle che andava
in Italia e a Roma. Quella, tutta
meravigliata, esclamò: "Proprio a Roma? Ma quelli che vanno a Roma non si
sa come tornano" (voleva dire che a Roma, quanto a profitto spirituale, ne
ricavavano ben poco). Non aveva osato
dirle che andava a Gerusalemme per timore di vanagloria. Lo stesso timore era tanto radicato in lui
che non si permetteva mai di nominare il suo luogo di origine e il suo
casato. Ottenute finalmente le provviste
si diresse verso la nave. Ma, sulla
banchina, accorgendosi che gli restavano ancora cinque o sei monete ricevute
mendicando di porta in porta (perché così si procurava da vivere), le lasciò su
un tavolo che era lì vicino sul molo.
[37] Poi si imbarcò. Era stato a Barcellona poco più di venti
giorni. Quand'era ancora a Barcellona,
prima dell'imbarco, com'era sua abitudine, andava in cerca di persone spirituali
con cui intrattenersi, anche se conducevano vita solitaria, lontano dalla
città. Ma sia a Barcellona che a
Manresa, per tutto il tempo che vi rimase, non poté trovare persone che lo
aiutassero quanto desiderava. Solo
quella donna di Manresa di cui si è parlato - quella che diceva di pregare Dio
affinché Cristo gli apparisse - gli pareva che fosse più addentro nelle cose
dello spirito. Perciò, dopo la partenza
da Barcellona, non si curò più di cercare persone spirituali.
[38] Navigarono col vento in poppa, ma così
impetuoso che da Barcellona giunsero a Gaeta in cinque giorni e cinque notti;
tutti però erano pieni di spavento per quella violenta burrasca. In tutta la regione c'era l'incubo della
peste, ma egli, appena sbarcato, si mise in viaggio per Roma. Dei compagni di navigazione si unirono a lui
in comitiva una madre che portava con sé la figlia vestita da ragazzo, e un
altro giovane. Lo seguirono perché
anch'essi chiedevano l'elemosina.
Raggiunsero una cascina dove, attorno a un gran fuoco, c'erano molti
soldati che offrirono loro da mangiare e vino in abbondanza, con tanta
insistenza che si sarebbe detto volessero ubriacarli. Poi li separarono: alloggiarono madre e
figlia di sopra in una camera, il pellegrino e il giovane in una stalla. A notte fonda sentì levarsi alte grida dal
piano di sopra. Si alzò per vedere cosa
succedeva, e trovò madre e figlia giù in cortile, tutte in lacrime: si
lamentavano dicendo che avevano tentato di violentarle. Ne provò uno sdegno così grande che cominciò
a gridare dicendo: "Questo è intollerabile!" e altre simili
proteste. E si espresse con tanta
energia che tutti quelli della casa ne rimasero spaventati; nessuno osò fargli
alcun male. Il giovane era già fuggito,
e loro tre ripresero il cammino che era ancora notte.
[39] Arrivarono a una città [Fondi?] poco distante, ma trovarono chiuse le porte. Non potendo entrare, passarono quella notte
in una chiesa dove pioveva dentro, ma che era lì vicino. La mattina non vollero aprire loro le
porte. Fuori delle mura non c'era modo
di trovare elemosina, pur essendosi rivolti anche a un castello che sorgeva
nelle vicinanze. Là il pellegrino si
sentì venir meno, sia per il gran disagio patito in mare che per il resto, eccetera.
E poiché non ce la faceva più a camminare, si fermò là; madre e figlia invece
proseguirono verso Roma. Quel giorno
molta gente usci dalla città; così venne a sapere che stava per giungere la
signora di quelle terre [Beatrice
Appiani]. Si presentò a lei e le
spiegò che stava male solo per sfinimento; le chiedeva il permesso di entrare
in paese per cercarvi qualche aiuto.
Glielo permise senza difficoltà.
Mendicando per le vie raccolse parecchio denaro. In capo a due giorni, riprese le forze, si
rimise in cammino e arrivò a Roma la domenica delle Palme.
[40] Là, tutti quelli che parlavano con lui, al
sentire che non aveva denaro per andare a Gerusalemme, tentarono di dissuaderlo
da quel viaggio, sostenendo con molti argomenti che senza pagare era
impossibile ottenere un imbarco. Ma egli
sentiva dentro di sé una certezza incrollabile.
Non poteva avere dubbi: doveva trovare il modo per andare a
Gerusalemme. Attese di ricevere la
benedizione del papa Adriano VI; poi, otto o nove giorni dopo la Pasqua, partì
per Venezia. Aveva ancora con sé sei o
sette ducati che gli erano stati offerti per il viaggio da Venezia a
Gerusalemme: li aveva accettati cedendo un poco al timore che gli avevano fatto
venire di non poter fare il viaggio diversamente. Ma due giorni dopo la partenza da Roma cominciò
a capire che la sua era stata mancanza di fiducia; provò molto dispiacere per
aver accettato quei ducati e si domandava se non era meglio sbarazzarsene. Alla fine decise di distribuirli con
larghezza a quelli che incontrava (di solito erano dei poveri). Così quando arrivò a Venezia non aveva più se non poche monete che gli furono
necessarie per quella notte.
[41] Durante tutto il viaggio verso Venezia, a
causa delle precauzioni imposte dal diffondersi della peste, dormiva sotto i
portici. Una volta, destandosi al
mattino, si trovò davanti un uomo che al primo vederlo scappò via spaventato:
doveva proprio avere un aspetto livido.
Viaggiando così arrivò a Chioggia, e con lui c'erano alcuni altri che
gli si erano uniti lungo la strada.
Venendo a sapere che non li avrebbero lasciati entrare a Venezia, quei
compagni decisero di andare a Padova per avere un certificato di sanità; e
anch'egli partì con loro. Quelli
camminavano così in fretta che lui non riusciva a tener loro dietro; lo
staccarono, abbandonandolo in aperta campagna sul calare della notte. Mentre era là, gli apparve Cristo nel modo in
cui di solito gli si manifestava, come si è detto sopra, e lo confortò
molto. Sostenuto da questa consolazione,
il giorno dopo, in mattinata, senza falsificare il certificato come - credo -
avevano fatto gli altri, giunge alle porte di Padova e vi entra senza che le
guardie gli domandino nulla. Lo stesso
accade poi all'uscita, con grande stupore dei compagni che si erano appena
muniti del salvacondotto per entrare a Venezia, mentre lui non se n'era curato
affatto.
[42] A Venezia le guardie salirono sul
traghetto per controllare a uno a uno tutti quelli che c'erano, ma lui lo
tralasciarono. In città si procurava il
cibo chiedendo l'elemosina e dormiva in piazza San Marco. Non volle mai presentarsi all'ambasciatore
dell'imperatore e neppure si diede da fare con impegno straordinario a
procurarsi i mezzi per andare a Gerusalemme.
Aveva nell'anima una grande certezza che Dio gliene avrebbe dato modo, e
questo gli dava tanta fiducia che, per quante paure o ragioni gli opponessero,
non riuscivano a scuoterlo. Un giorno un
ricco spagnolo lo avvicinò e gli chiese che cosa faceva e dove voleva andare. Conosciuta la sua intenzione lo invitò a
mangiare a casa sua e poi lo tenne con sé alcuni giorni, finché tutto fu pronto
per la partenza. Fin dal tempo di
Manresa il pellegrino aveva preso questa abitudine: a tavola, quando mangiava
con qualcuno, non parlava mai se non per dare qualche breve risposta, ma stava
ad ascoltare quello che si diceva e fissava l'attenzione su alcuni argomenti da
cui prendeva occasione per parlare di Dio: così appunto faceva al termine del
pasto.
[43] Proprio per questa ragione quel buon
signore e i suoi familiari gli si affezionarono tanto che vollero trattenerlo e
lo indussero a rimanere in casa loro. Il
suo ospite in persona lo accompagnò dal doge di Venezia [Andrea Gritti] perché
potesse parlare con lui, cioè gli ottenne di essere ricevuto e ascoltato. Dopo l'udienza, il doge diede ordine che lo
facessero salire sulla nave dei governatori che andavano a Cipro. Quell'anno erano giunti a Venezia molti
pellegrini diretti a Gerusalemme, ma a causa della nuova situazione creatasi
con la caduta di Rodi, la maggior parte di essi era rientrata ai rispettivi
Paesi. Ce n'erano ancora tredici sulla
nave dei pellegrini che salpò per prima; ne rimanevano otto o nove per quella
dei governatori. Anche questa era ormai
prossima alla partenza quando il nostro pellegrino fu assalito da febbri
violente che lo tormentarono per alcuni giorni.
Poi lo lasciarono, ma la nave doveva salpare proprio il giorno in cui
aveva preso una purga. Quelli di casa
domandarono al medico se lo riteneva in grado di imbarcarsi per Gerusalemme, e
quegli rispose che se intendeva essere sepolto là si imbarcasse pure. Ma lui salì sulla nave e partì il giorno
stesso. I primi giorni soffrì di vomito;
poi si sentì molto sollevato e riprese decisamente a star bene. Sulla nave si commettevano apertamente azioni
indecenti e turpi, ed egli le biasimava severamente.
[44] Gli spagnoli che viaggiavano in quella nave
gli consigliarono di non insistere perché tra l'equipaggio si parlava di
abbandonarlo su qualche isola. Ma
piacque a nostro Signore che si arrivasse presto a Cipro. Coloro che erano diretti a Gerusalemme,
raggiunsero via terra un altro porto chiamato "Le Saline", distante
dieci leghe, e qui si imbarcarono sulla nave dei pellegrini. Anche su questa, per suo sostentamento non
portò altro che la speranza in Dio, come aveva fatto sull'altra nave. Durante tutto questo tempo gli si manifestava
nostro Signore infondendogli grande consolazione e risolutezza: gli pareva di
vedere una cosa rotonda e grande, come se fosse d'oro. Ciò avvenne da Cipro fino allo sbarco a
Giaffa. Si avviarono verso Gerusalemme a
dorso di certi asinelli, secondo l'uso del luogo. A due miglia dalla città santa, uno spagnolo,
un nobile a quanto sembrava, di nome Diego Manes, parlò con molta devozione a
tutti i pellegrini: stavano per arrivare al luogo da cui si poteva scorgere la
città; perciò era bene che tutti si preparassero interiormente e rimanessero in
silenzio.
[45] Tutti furono d'accordo e ciascuno si
dispose al raccoglimento. Poco prima di
giungere al luogo da cui si scorgeva la città, vedendo i frati con la croce che
li stavano aspettando, scesero dalle cavalcature. Il pellegrino alla vista della città provò
grande consolazione. Anche tutti gli altri,
stando alle loro parole, erano molto confortati e provavano una gioia che
pareva soprannaturale. Questa stessa
devozione il pellegrino la provò poi sempre nel visitare i luoghi santi. Era
suo fermo proposito stabilirsi a Gerusalemme per ritornare spesso su quei
luoghi santi. Oltre a questo scopo di
devozione ne aveva un altro: aiutare le anime.
Per poter fare questo aveva portato con sé lettere di presentazione per
il padre Guardiano. Nel consegnarle gli
manifestò la prima intenzione, cioè di restare là per sua devozione; non invece
la seconda, di voler procurare il bene delle anime (questa non l'aveva
manifestata a nessuno, mentre dell'altra aveva ripetutamente parlato in
pubblico). Il Guardiano gli rispose che
non riteneva possibile la sua permanenza: la casa si trovava in tali strettezze
che non poteva nemmeno mantenere i frati, tanto che aveva già deciso di
rinviarne alcuni in occidente insieme con i pellegrini. Il pellegrino ribatté che dalla casa non
voleva nulla; gli bastava che quando fosse venuto a confessarsi lo
ascoltassero. A queste condizioni la
cosa era possibile - concluse il Guardiano -; doveva comunque aspettare la
venuta del padre Provinciale [probabilmente il superiore maggiore dell'Ordine
in quel territorio] che allora si trovava a Betlemme.
[46] Su questa parola il pellegrino si ritenne
sicuro e si mise a scrivere lettere a persone spirituali in Barcellona. Ne
aveva già scritta una e stava scrivendone un'altra quando, il giorno prima
della partenza dei pellegrini, vengono a chiamarlo da parte del padre
Provinciale, che era ormai giunto, e del padre Guardiano. Il Provinciale con parole cortesi gli disse
che aveva saputo del suo fervoroso desiderio di fermarsi in quei luoghi santi,
e aveva considerato attentamente la cosa.
Ma tenendo presente l'esperienza che aveva di altri casi, riteneva che
non fosse opportuno. Già molti avevano
avuto lo stesso desiderio, ma alcuni erano stati uccisi, altri imprigionati, e
i suoi religiosi avevano poi dovuto pagare il riscatto. Pertanto doveva prepararsi a partire, il
giorno dopo, con gli altri pellegrini.
Egli ribatté che la sua decisione era irremovibile, e riteneva di non
poter desistere dall'attuarla per nessuna ragione. Lasciava così capire che era per lui un
impegno di coscienza non desistere dal suo proposito per nessun timore (di
morte o di prigionia), anche se il padre Provinciale non era del parere; a meno
che lo obbligasse sotto pena di peccato.
Allora il Provinciale dichiarò che essi avevano ricevuto dalla Sede
Apostolica l'autorità di far partire o lasciar restare, a loro giudizio, e
anche di scomunicare chi non voleva obbedire.
Nel suo caso, appunto, essi giudicavano che non doveva rimanere,
eccetera.
[47] Voleva anche mostrargli le Bolle in virtù
delle quali erano autorizzati a scomunicarlo; ma egli disse che non aveva
bisogno di vederle: credeva senz'altro alle loro reverenze, e dal momento che
avevano giudicato così in forza dell'autorità che avevano, avrebbe loro
obbedito. Finita così l'udienza, mentre
tornava al suo alloggio, lo prese un vivo desiderio di visitare il monte
Oliveto ancora una volta prima di partire, dal momento che non era volontà del
Signore che rimanesse in quei santi luoghi.
Sull'Oliveto c'è una pietra dalla quale nostro Signore si distaccò per
salire al cielo, e si vedono ancora le impronte dei suoi piedi: queste egli voleva
tornare a vedere. Così, senza parlarne
con nessuno e senza prendere alcuna guida (se uno non si fa accompagnare da una
guida turca corre serio pericolo) si sottrasse agli altri e se ne andò tutto
solo al monte Oliveto. Poiché i custodi
non volevano lasciarlo entrare, regalò loro un tagliacarte che aveva con sé: e
dopo aver pregato con intensa consolazione, gli venne desiderio di andare anche
a Betfage. Là si ricordò che sul monte
Oliveto non aveva osservato bene l'esatta posizione del piede destro e del
piede sinistro; tornò lassù e - a quanto ricorda - diede ai custodi le sue
forbici perché lo lasciassero entrare.
[48] Quando i frati del convento seppero che se
n'era andato via senza alcuna guida, si misero a cercarlo con premura. Così, mentre egli scendeva dall'Oliveto, si
imbatté in un "cristiano della cintura" che prestava servizio nel
convento: armato di un grosso bastone e tutto furente, minacciava di
dargliele. Avvicinatosi, lo afferrò violentemente
per un braccio; il pellegrino si lasciava condurre senza alcuna resistenza, ma
quel brav'uomo non lo mollò più. Mentre percorreva quella strada, sempre tenuto
stretto dal servo del convento, ricevette grande consolazione da nostro
Signore: gli pareva di vedere Cristo continuamente sopra di sé. E questa consolazione perdurò, con grande
intensità, fino al suo arrivo al convento.
[49] Partirono il giorno seguente. Giunti a Cipro i pellegrini si distribuirono
su diverse navi; in porto ce n'erano tre o quattro in procinto di salpare per
Venezia. Una era turca; un'altra era
un'imbarcazione di piccole dimensioni; la terza era una lussuosa e robusta nave
di un ricco veneziano. Alcuni passeggeri
chiesero al padrone di questa nave che accogliesse il pellegrino; ma appena
seppe che non aveva denaro, quel ricco rifiutò; e a nulla servì che molti lo
pregassero e glielo raccomandassero: se era veramente santo - commentava -
facesse la traversata come san Giacomo o in altro modo simile. Allora quegli stessi passeggeri gli ottennero
molto facilmente l'imbarco dal padrone della nave piccola. Salparono una mattina con vento favorevole;
ma verso sera li colse una tempesta che separò le navi una dall'altra. Quella più grande andò a naufragare nei
pressi della stessa isola di Cipro e solo le persone si salvarono; la nave
turca colò a picco con tutti i passeggeri; l'imbarcazione più piccola fu molto
sbattuta dalle onde, ma alla fine riuscì ad approdare sulle coste della
Puglia. Si era in pieno inverno, faceva
gran freddo e nevicava, e il pellegrino aveva indosso solo un paio di calzoni
di tela grossolana che gli arrivavano al ginocchio, lasciando scoperte le
gambe, un paio di scarpe, un giubbotto di tela nera con larghi strappi sulle
spalle, e una mantellina corta e sdrucita.
[50] Arrivò a Venezia a metà gennaio 1524. Dalla partenza da Cipro era rimasto in mare
tutto novembre e dicembre e i giorni già trascorsi di gennaio. A Venezia tornò a incontrarlo uno dei due
signori che lo avevano ospitato prima della partenza per Gerusalemme, e gli
diede in elemosina quindici o sedici giuli e un pezzo di stoffa che egli
ripiegò più volte e se lo pose sullo stomaco per ripararsi dal gran freddo. Il
pellegrino aveva compreso che la sua permanenza a Gerusalemme non era volontà
di Dio. Da allora andava sempre considerando
tra sé cosa doveva fare. Si sentiva
propenso a dedicarsi per un pò di tempo allo studio in modo da mettersi in
grado di aiutare le anime; così decise di andare a Barcellona. Partì dunque da Venezia diretto a
Genova. A Ferrara un giorno, mentre faceva
le sue devozioni nella cattedrale, un povero gli chiese l'elemosina; gli porse
un marchetto, moneta che vale cinque o sei quattrini. Subito venne un altro povero, e anche a lui
diede un'altra moneta spicciola che valeva un pò di più. A un terzo, avendo ormai solo dei giuli,
diede un giulio. I mendicanti, vedendo
che faceva l'elemosina, continuarono a venire, e così se ne andò tutto il suo
gruzzolo. Alla fine vennero molti
insieme, ma egli si scusò con loro perché non aveva più nulla.
[51] Partì dunque da Ferrara per Genova. Lungo il cammino incontrò alcuni soldati
spagnoli che gli fecero buona accoglienza per la notte, ma si meravigliarono
molto che viaggiasse per quella strada che lo obbligava ad attraversare le
linee dei due eserciti, francese e imperiale.
Gli suggerirono di abbandonare la via maestra e di prenderne un'altra
più sicura, che gli indicarono. Non
seguì quel consiglio; proseguendo diritto per la sua strada, passò per un
villaggio bruciato e distrutto, e così fino a sera non trovò nessuno che gli
desse qualcosa da mangiare. Al tramonto
giunse a un borgo fortificato; immediatamente le sentinelle, pensando che fosse
una spia, lo arrestarono. Lo rinchiusero
in una casupola vicino alla porta e lo sottoposero a interrogatorio come si fa
con le persone sospette. A tutte le
domande rispondeva che non sapeva niente.
Lo denudarono e lo perquisirono fino nelle scarpe. Non riuscendo a cavarne nulla in alcun modo,
lo legarono e lo condussero al capitano; ci avrebbe pensato lui a farlo parlare. Li pregò che lo conducessero via coperto con
il suo mantello; ma non vollero darglielo e lo portarono dal comandante
rivestito solo di quei calzoni e di quel giubbotto di cui si è parlato.
[52] Lungo il tragitto al pellegrino tornava in
mente il ricordo di Cristo legato e condotto via. Non si trattava però di una visione come le
altre volte. Percorsero tre vie
frequentate, ma egli andava senza alcuna tristezza, anzi tutto contento e
allegro. Di solito nel parlare a
qualunque persona si rivolgesse adoperava il voi. Lo faceva per un motivo religioso, nella
convinzione che Cristo e gli apostoli parlavano così, eccetera. Mentre dunque percorreva quelle strade gli
venne in mente che in questa circostanza sarebbe stato opportuno abbandonare la
sua abitudine e rivolgersi al capitano col titolo di "signoria";
glielo suggeriva anche un certo timore di possibili torture, eccetera. Appena
si accorse che si trattava di una tentazione, pensò: se è così, né gli darò il
titolo di "signoria", né gli farò riverenza, né mi toglierò il
berretto.
[53] Giunti alla residenza del capitano lo
lasciarono in una stanza al piano terreno, e poco dopo venne il capitano a
interrogarlo; ma lui disse solo poche parole, con lunghe pause tra l'una e
l'altra, senza adoperare alcun segno di distinzione. Il capitano lo giudicò pazzo e tale lo
dichiarò davanti a coloro che glielo avevano condotto: "Quest'uomo è un
demente; dategli la sua roba e cacciatelo via". Uscito dal palazzo
incontrò subito uno spagnolo che abitava in quel luogo; questi lo accompagnò a
casa sua, gli diede da sfamarsi e gli procurò l'alloggio per quella notte. Al mattino dopo ripartì, e camminò fino a
sera. Due soldati di guardia a una torre
lo videro; scesero, lo arrestarono e lo condussero al comandante, che era
francese. Tra le altre cose, questi gli
domandò di che paese fosse. Saputo che
era della Guipúzcoa esclamò: "Anch'io sono di quelle
parti"[probabilmente dei pressi di Bayonne]; poi soggiunse:
"Accompagnatelo via; offritegli la cena e trattatelo bene" Durante
questo viaggio da Ferrara a Genova ebbe molte altre vicende di minore
importanza. Infine giunse a Genova. Qui un biscaglino di nome Portundo, che già
altre volte lo aveva incontrato quando prestava servizio alla corte del Re
cattolico, lo riconobbe e gli ottenne l'imbarco su una nave diretta a
Barcellona. In questa traversata corse serio pericolo di essere catturato dalla
flotta di Andrea Doria che, essendo allora alleato dei francesi, diede la
caccia alla nave.
[54] Giunto a Barcellona, manifestò il suo
desiderio di applicarsi agli studi a Isabella Roser e a un certo maestro
Ardévol che insegnava grammatica. A
tutti e due l'idea parve molto buona: lui si offrì a dargli lezioni
gratuitamente, lei a provvederlo del necessario per il sostentamento. Il pellegrino aveva conosciuto a Manresa un
frate, probabilmente dell'ordine di San Bernardo, uomo di grande
spiritualità. Ora avrebbe desiderato
starsene presso di lui, sia per studiare che per dedicarsi con più impegno alla
vita spirituale e far del bene alle anime.
Rispose dunque che, se a Manresa non trovava la sistemazione desiderata,
avrebbe accettato quanto gli offrivano. Andò a Manresa, ma trovò che quel frate
era morto. Ritornò allora a Barcellona e
iniziò gli studi con molta applicazione. Ma lo disturbava molto questo fatto:
ogni volta che si metteva a imparare a memoria, esercizio necessario a chi
comincia a studiare grammatica, gli sopravvenivano nuove intuizioni e più
intenso gusto delle realtà spirituali. Ne
era così preso che non riusciva a imparare nulla, né, per quanto vi si opponesse, riusciva a liberarsene.
[55] Riflettendo spesso su questo fatto, diceva
tra sé: "Nemmeno quando mi metto in preghiera o ascolto la messa mi
vengono illuminazioni così penetranti".
Ma a poco a poco prese coscienza che si trattava di tentazione. Dopo aver pregato, si recò a Santa Maria del
Mare. Lì vicino c'era la casa del suo
maestro ed egli lo pregò che, in quella chiesa, lo volesse ascoltare un
momento. Si sedettero ed egli espose fedelmente
tutto quello che accadeva nel suo spirito: questa era la ragione per cui fino
allora aveva fatto così scarso profitto.
Perciò si impegnava con lui in questi termini: "Io vi prometto di
non mancare mai alle vostre lezioni nei prossimi due anni, solo che trovi, qui
a Barcellona, un pò di pane ed acqua per sostentarmi". Dopo aver fatto
questa promessa così risoluta, non provò mai più quelle tentazioni.
Il dolore di stomaco che lo aveva colto a
Manresa, e a causa del quale si era indotto a portare le scarpe, lo aveva
lasciato, e fin da quando era partito per Gerusalemme era sempre stato bene.
Perciò al tempo degli studi a Barcellona
gli venne il desiderio di riprendere le penitenze di un tempo. Cominciò dunque col fare un buco nella suola
delle scarpe, e lo allargava a poco a poco.
Quando giunse il freddo dell'inverno, aveva ormai solo le tomaie.
[56] Terminati i due anni di studio durante i
quali, a giudizio di altri, aveva fatto molto profitto, il suo maestro dichiarò
che poteva ormai dedicarsi al corso di filosofia, e gli consigliò di andare ad
Alcalá. Ma egli si fece ancora esaminare
da un dottore in teologia. Anche lui gli
diede lo stesso consiglio.
Allora partì per Alcalá, da solo
(sebbene probabilmente allora avesse già
alcuni compagni). Arrivato ad Alcalá
cominciò a mendicare e a vivere di elemosina.
Dopo dieci o dodici giorni di questa vita, una volta un chierico e altri
suoi compagni, al vederlo mendicare, presero a deriderlo e a rivolgergli
insolenze, come spesso si fa con chi è sano e vuol fare il mendicante. Passava di lì, in quel momento, il direttore
dell'ospedale nuovo di Antezana e ne ebbe gran pena. Lo chiamò e lo condusse all'ospedale dove gli
assegnò una camera con tutto il necessario.
[57] Poiché a Barcellona era giunto nella
quaresima del 1524 e là aveva studiato due anni, era il 1526 quando si trasferì
ad Alcalá. Qui per un anno e mezzo circa
si dedicò allo studio della Logica di Soto, della Fisica di Alberto, e del
Maestro delle Sentenze. Sempre in Alcalá
si impegnò a dare esercizi spirituali e a spiegare la dottrina cristiana, con
buoni risultati a gloria di Dio. Molte
persone furono introdotte a una profonda conoscenza e gusto delle cose dello
spirito; altre invece erano soggette a varie tentazioni; una, ad esempio,
volendosi flagellare, non ci riusciva come se qualcuno le trattenesse la
mano. E accadevano anche altri fenomeni
del genere che suscitavano scalpore in mezzo al popolo, soprattutto perché
dovunque egli insegnava la dottrina cristiana accorreva molta gente.
Devo ricordarmi
della paura che egli stesso provò una notte.
Appena arrivato ad Alcalá conobbe don Diego
de Eguìa, il quale abitava in casa di suo fratello che faceva il tipografo ed
era piuttosto benestante. Essi lo
aiutavano con elemosine per soccorrere i poveri e ospitavano i suoi tre
compagni. Un giorno il pellegrino venne
a chiedere aiuto per alcune persone bisognose; don Diego gli disse che non
aveva denaro, ma gli aprì un armadio dove erano riposti diversi arredi; gli
diede coperte di vari colori, candelieri e altre cose del genere. Il pellegrino le avvolse tutte in un telo, se
lo caricò sulle spalle e andò a portare soccorso ai poveri.
[58] Come si è già detto sopra, si faceva un
gran parlare per tutta la zona di quello che succedeva in Alcalá; e chi la
pensava in un modo, chi in un altro. La
cosa fu risaputa a Toledo dagli inquisitori che vennero subito ad Alcalá. L'ospite ne avvisò il pellegrino e i suoi
compagni, e disse che li facevano passare per "insaiati", forse anche
per "illuminati", e che li avrebbero sottoposti a tortura. Gli inquisitori avviarono subito un'accurata
inchiesta sulla loro vita, poi tornarono a Toledo senza convocarli, poiché
erano venuti solo per una prima informazione.
Lasciarono l'incarico del processo al vicario Figueroa (quello che
attualmente è presso l'imperatore). Di
lì a qualche giorno costui li mandò a chiamare e comunicò loro che gli
inquisitori avevano fatto un'accurata inchiesta sul loro conto, ma che non era
stato trovato nulla di riprovevole nelle loro idee e nel loro modo di
vivere. Pertanto potevano continuare
come prima, liberamente. Ma, tenuto
conto che non erano religiosi, non sembrava opportuno che vestissero tutti alla
stessa maniera. Era meglio - anzi,
questo lo imponeva loro - che due (e indicò il pellegrino e Arteaga) tingessero
l'abito di nero; altri due, cioè Calisto e Cáceres lo tingessero color marrone;
Juanico, un giovane francese, poteva restare com'era.
[59] Il pellegrino dichiarò che avrebbero eseguito quegli ordini. "Ma",
soggiunse, "non vedo proprio a che cosa servano queste inquisizioni.
L'altro giorno un sacerdote non ha voluto dare l'Eucaristia a un tale perché si
comunicava ogni otto giorni, e anche a me hanno fatto difficoltà. Noi vorremmo
sapere se hanno riscontrato in noi qualche atteggiamento eretico".
"No", soggiunse Figueroa. "Se lo avessero trovato, vi avrebbero
mandati al rogo". E il pellegrino: "Anche voi finireste sul rogo se
vi scoprissero eretico" Tinsero i loro abiti come era stato loro
ordinato. Dopo quindici o venti giorni,
Figueroa comanda al pellegrino di non andare più scalzo, ma di portare le
scarpe; egli obbedisce prontamente, come poi sempre in cose di tal genere. Quattro mesi dopo, lo stesso Figueroa ripeté
l'inchiesta sul loro conto. Oltre ai
soliti motivi gliene offrì occasione il fatto che una donna, maritata e di
buona condizione sociale, dimostrava una grande venerazione verso il
pellegrino; e per sfuggire alla curiosità della gente veniva a fargli visita in
ospedale alle prime luci del giorno, con un velo sul capo secondo il costume di
Alcalá de Henares; entrando se lo toglieva e si recava all'alloggio del
pellegrino. Anche questa volta non
fecero loro nulla e, dopo aver raccolto le informazioni, neppure li convocarono
né fecero loro osservazioni.
[60] Passati altri quattro mesi, quando egli
abitava già in una casetta fuori dell'ospedale, un giorno si presentò alla sua
porta un ufficiale giudiziario. Lo
chiama e gli dice: "Vieni un pò con me". Quindi lo rinchiude nella
prigione aggiungendo: "Non uscirai di qui fino a nuovo ordine". Era
estate, ed egli là dentro godeva di una certa libertà. Molti venivano a trovarlo, ed egli spiegava
la dottrina cristiana e dava gli Esercizi come quando era libero. Non volle mai prendersi un avvocato o un
procuratore benché molti gli si fossero offerti. Ricorda in modo speciale una donna, Teresa de
Cárdenas: costei gli mandò uno a fargli visita e a proporgli insistentemente di
farlo uscire di là. Ma egli non accettò
nulla. Rispondeva a tutti: "Colui
per amore del quale sono finito qui dentro me ne farà uscire, se così gli
piacerà".
[61] Rimase in carcere diciassette giorni senza
saperne il motivo o essere interrogato.
Solo allora Figueroa venne alla prigione e gli fece un lungo
interrogatorio: giunse a chiedergli se per caso non imponesse di osservare il
sabato. Gli domandò poi se conosceva due
donne, madre e figlia. Disse di sì. E se aveva saputo in precedenza che avevano
intenzione di fare un viaggio. A questo
rispose di no, perché era vincolato da segreto.
Il vicario allora, mettendogli una mano sulla spalla e sorridendo, gli
disse: "Questa è la ragione per cui siete finito qui dentro". Tra le
molte persone che si facevano consigliare dal pellegrino c'era anche una madre
con sua figlia, tutte e due vedove; la figlia era molto avvenente.
Avevano fatto notevoli progressi nella vita spirituale, specialmente la
figlia; tanto che, pur essendo nobili, erano andate in pellegrinaggio alla
Veronica di Jaén a piedi, forse mendicando, e da sole. Il fatto aveva suscitato scalpore in
Alcalá. Il dottor Ciruelo, che era un pò
il loro tutore, pensò che fosse stato il pellegrino a indurle a quel
pellegrinaggio, e per questo lo aveva fatto incarcerare. Quando dunque il prigioniero intese ciò che
il vicario aveva detto, gli domandò: "Volete che vi parli un pò più
esplicitamente su questo argomento?". "Sì", gli rispose.
"Allora" soggiunse, "dovete sapere che queste due donne hanno
insistito con me molte volte che volevano andare in giro per il mondo a servire
i poveri, da un ospedale all'altro. Io le ho sempre dissuase da questo
proposito, tenuto conto che la figlia era così giovane e avvenente,
eccetera. Ho anche detto loro che, se
proprio volevano assistere i poveri, potevano farlo in Alcalá, o potevano anche
accompagnare il santissimo Sacramento".
Terminato il colloquio, Figueroa se ne andò con il suo scrivano,
portando con sé il verbale dell'incontro.
[62] In quel periodo il giovane Calisto si
trovava a Segovia. Appena seppe che il
pellegrino era in prigione, tornò subito, benché convalescente da una grave
malattia, e si unì a lui nel carcere. Il
prigioniero gli disse che avrebbe fatto bene a presentarsi al vicario. Questi lo trattò con benevolenza, ma gli fece
presente che doveva rinchiuderlo in carcere: era necessario che vi rimanesse
fino al ritorno delle due donne per vedere se la loro deposizione confermava le
dichiarazioni del prigioniero. Calisto
rimase in carcere alcuni giorni, ma il pellegrino, vedendo che gli nuoceva
fisicamente non essendo ancora del tutto ristabilito, lo fece scarcerare con
l'aiuto di un dottore suo grande amico.
Dal momento dell'arresto fino alla sua scarcerazione trascorsero
quarantadue giorni. Allora, essendo
ormai ritornate le due pie donne, lo scrivano del vicario si recò al carcere a
leggergli la sentenza: era libero, ma lui (e i suoi compagni) dovevano vestire
come gli altri studenti, non dovevano parlare di argomenti riguardanti la fede
nei quattro anni che restavano loro da dedicare agli studi perché non erano
ancora sufficientemente istruiti. Per la
verità, il pellegrino era il più preparato, ma anche la sua istruzione aveva
scarsi fondamenti: del resto questa era sempre la prima cosa che soleva dire
quando lo interrogavano.
[63] Dopo questa sentenza rimase perplesso su
quello che doveva fare: pareva che gli togliessero la possibilità di fare del
bene alle anime adducendo come unico motivo che non aveva ancora fatto gli
studi. Alla fine decise di andare dall'arcivescovo
di Toledo, Fonseca, e di rimettere la cosa nelle sue mani. Partì da Alcalá e incontrò l'arcivescovo a
Valladolid. Gli espose fedelmente la sua
situazione e gli dichiarò che, pur non essendo sotto la sua giurisdizione e
quindi non obbligato ad attenersi alla sua decisione, tuttavia in questo caso
avrebbe eseguito i suoi ordini (anche all'arcivescovo dava del voi, come a
tutti). Il prelato lo ascoltò
benevolmente e, sentendogli dire che desiderava andare a Salamanca, lo informò
che anche là aveva degli amici e una casa per studenti: erano a sua
disposizione. Nell'accomiatarlo gli fece
consegnare quattro scudi.
[64] Giunse a Salamanca dove, già da qualche
giorno, si trovavano gli altri quattro compagni. Una volta, mentre pregava in una chiesa, una
devota lo riconobbe per uno di quel gruppo: gli chiese come si chiamava e lo
seguì fin dove erano
alloggiati. Quando in Alcalá era stato
loro ingiunto di vestire come gli altri studenti, il pellegrino aveva
obiettato: "Ci avete comandato di tingere i vestiti e lo abbiamo fatto; ma
adesso portare abiti da studenti non siamo in grado di farlo, perché non
abbiamo denaro per acquistarli". Allora il vicario stesso li aveva
provveduti di vestiti e berretti e delle altre cose che usano gli
studenti. Così equipaggiati erano
partiti da Alcalá.
A Salamanca si confessava da un frate
domenicano in Santo Stefano. Dopo dieci
o dodici giorni di permanenza, un giorno il confessore gli disse: "I padri
della casa vorrebbero parlare con voi".
Egli acconsentì dicendo: "In nome di Dio". "Allora",
soggiunse il confessore, "potete venire a mangiare con noi domenica; ma vi
avverto che vorranno sapere da voi molte cose". La domenica si presentò
insieme con Calisto. Dopo mangiato, il
vice-priore (in assenza del priore), il confessore e, mi pare, un altro frate entrarono con loro due in una
cappella. Il vice-priore prese a dire
con molta affabilità che avevano sentito parlare molto bene della loro forma di
vita; sapeva che andavano predicando alla maniera apostolica, e avrebbe fatto
loro piacere conoscere più in particolare il loro modo di vivere. Gli chiese prima di tutto che studi avevano
fatto. Il pellegrino rispose: "Fra
tutti noi quello che ha studiato di più sono io"; poi dichiarò francamente
che aveva fatto pochi studi e senza una base solida.
[65] "Ma allora", ribattè il vice-priore,
"che cosa predicate?". E il pellegrino: "Noi non predichiamo;
parliamo solo familiarmente con qualcuno delle cose di Dio. Ad esempio, dopo
mangiato, con le persone che ci invitano". "Ma di quali cose di Dio
parlate? Perché è proprio questo che vorremmo sapere".
"Parliamo", continuò il pellegrino, "ora di una virtù, ora di
un'altra e ne facciamo l'elogio; ora di un vizio, ora di un altro, e lo
condanniamo". "E voi che non
avete studiato parlate di virtù e di vizi", ribatté il frate. "Di
questi argomenti si può parlare solo a due titoli: o perché si è studiato, o
perché si è illuminati dallo Spirito Santo. Voi non avete studiato; dunque
siete illuminati dallo Spirito Santo".
Appunto a proposito
dell'illuminazione dello Spirito Santo vorremmo conoscere il vostro pensiero.
A questo punto il pellegrino rimase un poco
sopra pensiero; quel modo di argomentare non gli sembrava molto logico. Dopo aver riflettuto un momento in silenzio,
disse che non c'era bisogno di parlare più a lungo su quell'argomento. Ma il frate insisteva: "Come! Proprio
adesso che circolano tanti errori di Erasmo e di molti altri che seminano
confusione tra la gente, voi non volete dar conto di quello che insegnate?".
[66] Il pellegrino
dichiarò: "Padre, io non aggiungerò più una sola parola a quello che ho
già detto, se non davanti ai miei superiori che mi vi possono
obbligare". Prima di questo, il
frate aveva domandato perché Calisto andava vestito a quel modo (portava un
corto saio, un gran cappello in testa, un bordone in mano, e un paio di
stivaletti quasi a mezza gamba: grande e grosso com'era, sembrava
deforme). Il pellegrino aveva spiegato
che in Alcalá erano stati messi in carcere, e avevano loro imposto di andare
vestiti come gli studenti; quel suo compagno, per il gran caldo, aveva ceduto
la sua veste a un chierico povero. Al
che il frate, mostrando il suo disappunto, borbottò tra i denti: "La
carità comincia da se stessi".
Per tornare al nostro racconto, il
vice-priore, visto che non riusciva ad avere altre dichiarazioni dal
pellegrino, soggiunse: "Allora vi fermerete qui e troveremo noi il modo di
farvi dire ogni cosa". I frati si allontanarono tutti
frettolosamente. Prima che uscissero il
pellegrino domandò se volevano che rimanessero nella cappella o in un altro
posto. Il vice-priore disse di restare
nella cappella. Subito i frati fecero chiudere tutte le porte e probabilmente
presero contatto con i giudici. Ma i due
furono trattenuti nel convento per tre giorni senza che fosse comunicato loro
nulla da parte della giustizia.
Prendevano i pasti nel refettorio insieme con i frati e la loro stanza
era quasi sempre piena di religiosi che venivano a far loro visita. Il pellegrino parlava sempre degli argomenti
che gli erano abituali; di conseguenza tra quei religiosi si creò una certa
divisione, e molti gli si mostravano favorevoli.
[67] In capo a quei tre giorni arrivò un
ufficiale giudiziario che li condusse in carcere. Non li rinchiusero da basso, con i
delinquenti comuni, ma di sopra in una stanza separata, che però, essendo
vecchia e abbandonata, era molto sporca.
Li legarono tutti e due con la stessa catena, ciascuno per un piede, e
la catena era fissata a una trave di sostegno al centro del locale; era lunga
da dieci a tredici palmi, e ogni volta che uno voleva muoversi l'altro era
obbligato a seguirlo. Rimasero svegli
tutta la notte. Il giorno dopo, appena
in città si sparse la voce che erano in carcere, mandarono loro l'occorrente
per dormire e altre cose necessarie, con generosità. Venivano sempre molti a visitarli e il
pellegrino continuava, secondo il suo metodo, a parlare di Dio, eccetera. Il baccelliere Frías venne ad esaminarli
separatamente e il pellegrino gli consegnò tutti i suoi scritti, cioè gli
Esercizi, perché li facesse leggere.
Frías domandò loro se avevano altri compagni; risposero che ne avevano e
indicarono anche dove abitavano. Subito,
per ordine del baccelliere, furono fatti venire Cáceres e Arteaga e rinchiudere
in carcere, lasciarono libero invece Juanico (questi in seguito si fece
frate). Non li misero di sopra con gli
altri due, ma da basso insieme con i prigionieri comuni. Pure in questa circostanza, meno ancora che altre
volte, non volle prendersi un avvocato o un procuratore.
[68] Dopo qualche giorno fu fatto comparire alla
presenza di quattro giudici: tre erano i dottori Santisidoro, Paravinhas e
Frías; il quarto era il baccelliere Frías; tutti avevano già esaminato gli
Esercizi. Gli posero molte domande, non
solo sugli Esercizi ma anche di teologia: ad esempio, sulla Trinità, sul
sacramento dell'Eucaristia, su come egli intendeva questi articoli di
fede. Prima di tutto, come di consueto,
dichiarò la sua incompetenza; poi, per ordine dei giudici, diede le sue
risposte parlando in modo tale che non trovarono nulla da ridire. Il baccelliere Frías che in tutto
l'interrogatorio si era sempre mostrato più esigente degli altri, gli sottopose
anche una questione di diritto canonico, e a tutto gli fu ordinato di
rispondere. Egli premetteva sempre che
non conosceva cosa insegnavano gli esperti su quegli argomenti. Poi gli fecero esporre la sua consueta
spiegazione del primo comandamento; ed egli vi si accinse e ne trattò così a
lungo e con tanta ampiezza che rinunciarono a fargli altre domande. In precedenza, a proposito degli Esercizi,
avevano insistito su un punto solo, che in essi si trova quasi al principio:
quando cioè un pensiero è peccato veniale e quando mortale. Il motivo della
loro insistenza nasceva dal fatto che egli si pronunciava su questa materia
senza averne la competenza. La sua
risposta era: "Se questo è vero o no decidetelo voi; e se non è la verità
condannatelo". Alla fine se ne andarono senza aver pronunciato alcuna
condanna.
[69] Tra le molte persone che andavano a parlargli
in carcere un giorno arrivò don Francesco de Mendoza (attualmente cardinale di
Burgos) insieme col baccelliere Frías.
Gli domandò familiarmente come si trovava nel carcere e se gli pesava
molto essere prigioniero. Ed egli:
"Vi darò la stessa risposta che, oggi stesso, ho dato ad una signora che
mostrava gran compassione vedendomi incarcerato. Le ho detto: con questo
dimostrate solo che non avete alcun desiderio di essere incarcerata per amore
di Dio; vi sembra dunque un male così grave la prigione? Quanto a me, vi
assicuro che non vi sono in Salamanca tanti ceppi e catene che io non ne
desideri di più per amore di Dio".
In quei giorni i detenuti del carcere
fuggirono tutti, eccetto i due compagni del pellegrino che erano stati
rinchiusi con loro. Quando al mattino
trovarono dentro solo loro due con tutte le porte aperte, il fatto diede molta
edificazione a tutti e se ne fece un gran parlare. Per questo assegnarono subito loro come
prigione un'intera casa lì vicino.
[70] Erano in carcere da ventidue giorni, quando
li convocarono per udire la sentenza.
Essa stabiliva: non era stato trovato alcun errore nel loro
comportamento e nelle loro idee; potevano dunque svolgere le attività di prima,
cioè insegnare la dottrina cristiana e parlare delle cose di Dio, purché non
definissero mai che una cosa è peccato mortale, un'altra veniale, prima di
avere studiato per altri quattro anni.
Letta la sentenza, i giudici come se volessero farla accettare, si
mostrarono molto affabili.
Il pellegrino dichiarò che avrebbe fatto
tutto quello che la sentenza prescriveva, ma che non l'accettava perché, senza
condannarlo in alcuna cosa, di fatto gli si chiudeva la bocca impedendogli di
fare del bene al prossimo in quello che poteva.
E per quanto il dottor Frías, che adesso gli si dimostrava molto amico,
insistesse, il pellegrino ripeté solamente che avrebbe obbedito a quelle
disposizioni finché si fosse trovato nella giurisdizione di Salamanca. Furono subito scarcerati, ed egli cominciò a
raccomandare a Dio e a considerare quello che doveva fare. Ormai gli ripugnava molto restare a Salamanca
perché, con quella proibizione di definire ciò che è peccato mortale o veniale,
gli era preclusa la possibilità di fare del bene alle anime.
[71] Decise dunque di andare a studiare a
Parigi. Quando il pellegrino a
Barcellona stava deliberando se doveva applicarsi agli studi e per quanto
tempo, la vera domanda che si poneva era questa: finiti gli studi si sarebbe
fatto religioso o sarebbe andato così per il mondo? Quando gli veniva il
pensiero di entrare in un ordine religioso, subito si sentiva portato a
sceglierne uno decaduto e poco osservante: intendeva farsi religioso per avere
l'occasione di soffrire di più. Inoltre
pensava che forse Dio in questo modo avrebbe aiutato quei religiosi. E Dio gli infondeva anche grande fiducia di
poter sopportare facilmente tutti gli affronti e le offese che gli avrebbero
fatto.
Durante il periodo di prigionia a Salamanca
non si erano affievoliti i desideri che aveva prima di aiutare le anime; anzi
proprio a questo scopo si proponeva anzitutto di dedicarsi agli studi, poi di
raccogliere attorno a sé dei compagni con lo stesso ideale e conservare quelli
che erano già con lui. Perciò, dopo aver
deciso di andare a Parigi, prese questi accordi con i compagni: essi avrebbero
aspettato lì nei dintorni, mentre lui sarebbe andato a vedere quali possibilità
c'erano per loro di applicarsi agli studi.
[72] Molte persone ragguardevoli lo pregarono
insistentemente di non partire, ma non riuscirono a dissuaderlo. Al contrario, quindici o venti giorni dopo
che era uscito dal carcere, partì tutto solo portando con sé un pò di libri
sopra un asinello. Anche a Barcellona
tutti quelli che lo conoscevano lo sconsigliarono di trasferirsi in Francia, a
causa delle grandi guerre che c'erano.
Gli riferivano episodi molto particolareggiati, fino a raccontargli che
lassù mettevano gli spagnoli allo spiedo.
Ma egli non ne provò mai la minima paura.
[73] Partì alla volta di Parigi da solo e a
piedi, e vi giunse verso febbraio all'incirca: era il 1528 o il 1527, secondo il suo
computo.
Mentre era in
carcere ad Alcalá nacque il principe
di Spagna (Filippo Il: 21 maggio 1527); dal che si possono ricavare le date di
ogni fatto, anche di quelli trascorsi.
Prese alloggio in una casa insieme con
alcuni spagnoli. Frequentò di nuovo le lezioni di umanità al collegio di
Montaigu perché prima lo avevano fatto andare avanti negli studi troppo in
fretta e si sentiva mancare le basi.
Andava a scuola con i ragazzi seguendo l'ordinamento degli studi e il
metodo di Parigi. Appena giunto, un
mercante gli aveva cambiato un assegno, ricevuto a Barcellona, con venticinque
scudi. Affidò quel denaro a uno degli
spagnoli che alloggiavano in casa; ma costui in poco tempo lo sperperò, e non
era più in grado di rimborsarlo. Così, al termine della quaresima, il
pellegrino di quella somma non aveva più niente; sia per le spese vive, sia per
il motivo sopra accennato. Perciò fu
costretto a mendicare e anche a lasciare la casa dove abitava.
[74] Fu accolto nell'ospedale di San Giacomo che
stava oltre la chiesa degli Innocenti.
Era molto scomodo per andare a scuola perché l'ospedale distava dal
collegio di Montaigu un bel pezzo di strada.
Inoltre per trovare la porta dell'ospedale aperta bisognava entrare al
suono dell'Avemaria e uscire a giorno fatto; così non poteva frequentare tutte
le lezioni. Anche il dover mendicare per
mantenersi costituiva un impedimento allo studio.
Da cinque anni ormai non provava dolori di
stomaco, per questo cominciò a praticare maggiori penitenze e digiuni. Dopo un pò di tempo che viveva in questo
modo, alloggiando all'ospedale e andando ad elemosinare rendendosi conto che
faceva assai scarso profitto nello studio, cominciò a riflettere sul da farsi. Venne a sapere che alcuni studenti prestavano
servizio nei collegi ai direttori, e tuttavia rimaneva loro tempo per gli
studi. Perciò decise di cercarsi un
padrone.
[75] Trovava conforto spirituale nel proporsi
queste considerazioni: immaginava che il maestro fosse Cristo; a un
condiscepolo dava nome san Pietro, a un altro san Giovanni, e così con i nomi
di tutti gli apostoli. Rifletteva:
quando il maestro mi darà un comando penserò che Cristo me lo comanda; e se un
altro mi domanderà qualcosa penserò che è san Pietro a domandarmela. Fece tutto il possibile per trovare un
padrone: ne parlò con il baccelliere Castro, con un frate certosino che
conosceva molti maestri, e con altri ancora.
Ma nessuno riuscì mai a trovargli il lavoro che cercava.
[76]. Non trovava proprio nessuna
soluzione. Infine un frate spagnolo un
giorno gli disse che sarebbe stato meglio andare ogni anno in Fiandra: in due
mesi, o anche meno, poteva ricavarne tanto da mantenersi agli studi per tutto
l'anno. L'espediente, dopo averlo
considerato davanti a Dio, gli parve buono.
Seguendo questo suggerimento portava a casa ogni anno dalle Fiandre il
necessario per cavarsela in qualche modo.
Una volta si trasferì anche in Inghilterra e raccolse elemosine più
abbondanti di quelle degli altri anni.
[77] Dopo
il primo ritorno dalle Fiandre cominciò a dedicarsi, più assiduamente di prima,
a conversazioni spirituali. Quasi
contemporaneamente dava gli Esercizi spirituali a tre persone, cioè a Peralta,
al baccelliere Castro della Sorbona, e a un biscaglino del collegio di Santa
Barbara di nome Amador. Costoro mutarono
vita radicalmente: distribuirono subito tutti i loro averi ai poveri, compresi
i libri, cominciarono a chiedere l'elemosina per le vie di Parigi, e passarono
ad alloggiare nell'ospedale di San Giacomo, dove prima era stato anche il
pellegrino, uscendone per i motivi sopra accennati. Questo suscitò grande scalpore all'università
per il fatto che i primi due erano persone ragguardevoli e molto note. Subito gli spagnoli cominciarono ad attaccare
i due maestri; e non riuscendo a farli ritornare all'università a forza di
argomenti e di persuasione, un giorno si presentarono in molti, con le armi
alla mano, e li costrinsero a uscire dall'ospedale.
[78] Li condussero all'università e giunsero a
questo accordo: prima essi dovevano terminare gli studi e solo dopo avrebbero
attuato il loro progetto. In seguito il
baccelliere Castro rientrò in Spagna, predicò per qualche tempo a Burgos, poi
si fece frate entrando nella certosa di Valencia. Peralta invece si mise in viaggio per
Gerusalemme, a piedi, come pellegrino; e così gli accadde che, in Italia, un
capitano suo parente lo fermò e trovando modo di portarlo davanti al Papa da
lui gli fece ingiungere di tornare in Spagna.
Questi fatti non accaddero subito allora, ma alcuni anni dopo. Intanto a Parigi si diffusero, specialmente
tra gli spagnoli, grandi lamentele contro il pellegrino. Il maestro de Gouveia andava dicendo che egli
aveva fatto perdere la testa ad Amador, alunno del suo collegio, e per questo
decise, dichiarandolo pubblicamente, che la prima volta che si fosse presentato
al Santa Barbara, lo avrebbe fatto fustigare in sala davanti a tutti, come
seduttore degli studenti.
[79] Quel
giovane spagnolo che gli era stato compagno di alloggio per i primi tempi, e
gli aveva sprecato tutti i soldi senza poi restituirglieli, era partito per la
Spagna passando per Rouen. Là, mentre
aspettava di imbarcarsi, si ammalò. Da
una sua lettera il pellegrino seppe che era infermo e gli venne il desiderio di
andare a trovarlo e di aiutarlo: pensava che in questa occasione poteva
conquistarlo all'idea di abbandonare il mondo e di impegnarsi totalmente al
servizio di Dio.
[ADATTAMENTO
DELL'ORIGINALE ITALIANO ARCAICO]
Per ottenere questo gli si affacciò l'idea
di percorrere le ventotto leghe che separano Parigi da Rouen, a piedi, scalzo,
senza mangiare né bere. Ma facendo
orazione su ciò, rimaneva molto perplesso.
Alla fine andò a San Domenico e là prese la decisione di fare quel
viaggio nel modo predetto. Gli era
passato il timore che aveva di tentare Dio.
Il giorno seguente, la mattina che doveva partire, si levò di buon'ora;
e mentre cominciava a vestirsi lo riprese un timore così grande che quasi gli
pareva di non riuscire a indossare gli abiti.
Pur con quella ripugnanza, uscì di casa e di città prima che fosse
giorno fatto. Tuttavia quel timore
durava sempre e gli rimase fino ad Argenteuil, un borgo che dista tre leghe da
Parigi, in direzione di Rouen, dove si dice sia conservata la veste di nostro
Signore. Lo oltrepassò provando ancora
quell'angustia spirituale; ma poi, mentre saliva un'altura, quello stato
d'animo a poco a poco svanì; gli subentrò una tale consolazione e slancio
spirituale accompagnato da tanta gioia, che cominciò a gridare là per quei
campi, a parlare con Dio, eccetera.
Quella sera alloggiò con un mendicante in un ospizio, avendo percorso
quel giorno quattordici leghe. La sera
dopo si fermò a dormire in un fienile.
Il terzo giorno arrivò a Rouen.
Come si era proposto, per tutto questo tempo non mangiò né bevve e
camminò scalzo. A Rouen confortò
l'infermo e lo aiutò a imbarcarsi per la Spagna. Gli diede anche una lettera indirizzandolo ai
compagni che stavano a Salamanca, cioè Calisto, Cáceres e Arteaga.
[80] Per non parlare più di questi compagni, le
loro vicende successive furono le seguenti: mentre il pellegrino era a Parigi
scrisse loro spesso, secondo gli accordi presi, informandoli che vi erano
scarse possibilità di farli venire a studiare in Francia. Tuttavia si diede da fare e scrisse a donna
Eleonora de Mascarenhas che aiutasse Calisto; le chiedeva di raccomandarlo a
qualcuno della corte del re di Portogallo per ottenere una delle borse di studio
a Parigi che il sovrano portoghese metteva a disposizione. Donna Eleonora consegnò a Calisto la lettera
di raccomandazione, gli diede una mula sulla quale viaggiare e denaro per le
spese.
Calisto si recò alla corte del re di
Portogallo, ma poi non andò a Parigi; invece, rientrato in Spagna, partì per
l'India dell'imperatore con una certa donna di buono spirito. In seguito tornò in Spagna e ancora una volta
in India, da dove poi rientrò arricchito, e a Salamanca fece meravigliare tutti
quelli che lo conoscevano prima.
Cáceres tornò a Segovia, sua patria, e là
si diede a vivere in modo tale che pareva avere dimenticato del tutto l'ideale
primitivo.
Arteaga fu fatto commendatore. In seguito, quando già la Compagnia si era
stabilita a Roma, gli fu assegnato un vescovado in India. Egli scrisse al pellegrino che lo facesse
affidare a uno della Compagnia; ma ne ebbe risposta negativa. Allora, fatto vescovo, andò lui nell'India
dell'imperatore. Là morì per un caso
strano: mentre era ammalato, essendoci a sua disposizione due fiasche di acqua
per rinfrescarsi, una di acqua prescritta dal medico, l'altra di un'acqua
velenosa detta di Solimano, per errore gli fu data da bere la seconda, che lo
fece morire.
[81] Rientrato a Parigi da Rouen il pellegrino
trovò che la vicenda di Castro e di Peralta aveva fatto nascere molte
chiacchiere sul suo conto, e l'inquisitore lo aveva cercato. Egli non volle rimanersene ad aspettare, ma
spontaneamente si presentò all'inquisitore: aveva sentito dire che lo cercava
ed era preparato a tutto ciò che volesse (l'inquisitore era il maestro Ory,
frate di san Domenico). Lo pregava di
sbrigarlo al più presto perché, per la imminente festa di San Remigio, aveva
intenzione di iniziare il corso di filosofia, e avrebbe voluto che questa
faccenda fosse risolta prima, così da potersi dedicare più assiduamente allo
studio. L'inquisitore non lo chiamò più:
gli disse solamente corrispondere a verità che gli avevano parlato di lui.
[82] Di lì a poco, il giorno di San Remigio che
è il primo di ottobre, cominciò a frequentare il corso di filosofia alla scuola
del maestro Giovanni Peña; e vi si accinse limitandosi a voler conservare i
compagni che si erano già impegnati a servire il Signore, senza cercarne altri,
per poter studiare più assiduamente.
All'inizio delle lezioni di quel corso ripresero a venirgli le stesse
tentazioni che aveva provato quando studiava grammatica a Barcellona; e ogni
volta che ascoltava la lezione non riusciva a stare attento a motivo delle
molte ispirazioni che gli venivano.
Vedendo che a quel modo faceva ben poco profitto nelle materie di
scuola, andò dal suo maestro e si impegnò con lui a non assentarsi mai, per
tutta la durata del corso, solo che trovasse pane e acqua per nutrirsi. Fatta questa promessa, tutte quelle
ispirazioni che gli venivano fuori tempo, scomparvero, e poté proseguire gli
studi tranquillamente. In questo periodo
aveva contatti con i maestri Pietro Favre e Francesco Xavier che poi conquistò
al servizio di Dio per mezzo degli Esercizi.
Durante quel corso non subì persecuzioni
come in precedenza. A questo proposito,
una volta il dottor Frago gli disse che si meravigliava di come era tranquillo,
senza che alcuno gli procurasse fastidi.
Lui rispose: "Il motivo è che ora non parlo con nessuno delle cose
di Dio; ma, finito il corso, riprenderò come prima".
[83] Mentre loro due discorrevano insieme, un
frate venne a chiedere al dottor Frago di trovargli una casa, perché in quella
dove alloggiava molti erano morti, e secondo lui di peste: in quei giorni stava
appunto per scoppiare l'epidemia a Parigi.
Il dottor Frago e il pellegrino vollero andare a vedere la casa e
condussero con sé una donna pratica di queste cose. Entrata a vedere, quella affermò che si
trattava di peste. Anche il pellegrino
volle entrare; trovandovi un ammalato lo confortò e con una mano gli toccò la
piaga. Dopo aver cercato di fargli
coraggio, se ne andò via da solo. La
mano cominciò a dolergli tanto che credette di aver preso la peste. L'impressione era così violenta che non
riusciva a dominarla; allora con gesto risoluto portò la mano alla bocca,
tenendovi dentro le dita a lungo e dicendo a se stesso: "Se hai la peste
alla mano, l'avrai anche alla bocca".
Dopo quel gesto l'impressione scomparve e anche il dolore alla mano.
[84] Quando
tornò al collegio di Santa Barbara, dove in quel tempo alloggiava e frequentava
il corso, gli altri giovani, avendo saputo che era entrato nella casa dove
c'era la peste, cominciarono a scansarlo, anzi gli impedirono di entrare: così
fu costretto a restarsene fuori per qualche giorno. E' usanza a Parigi che gli studenti di
filosofia al terzo anno quando prendono il baccellierato, ricevano una
pietra. Ma poiché vi si deve spendere
uno scudo, i più poveri non sono in grado di farlo. Il pellegrino era in dubbio se faceva bene a
prenderlo. Essendo molto incerto e non
riuscendo a decidere, pensò di rimettersi al parere del suo maestro. Questi gli suggerì di prenderlo, ed egli
segui il consiglio. Tuttavia non mancò
chi fece delle critiche; ci fu almeno uno spagnolo che ebbe a ridire. A Parigi, in quel periodo, soffriva già molto
di stomaco: ogni quindici giorni lo assaliva un dolore che persisteva acuto per
un'ora e gli faceva venire la febbre.
Una volta quelle fitte durarono sedici o diciassette ore. Anche più avanti
quando, compiuto il corso di filosofia, aveva già studiato alcuni anni teologia
e unito a sé i compagni, quel male perdurava e cresceva, e non si riusciva a
trovare alcun rimedio quantunque se ne provassero molti.
[85] I medici
dicevano che ormai solamente l'aria nativa gli poteva giovare. Anche i compagni gli diedero lo stesso
consiglio, e con molta insistenza. A
quel tempo avevano già deciso, tutti insieme, quello che volevano fare:
sarebbero andati a Venezia, poi a Gerusalemme, e avrebbero speso la loro vita
per il bene delle anime. Se non ottenevano il permesso di stabilirsi a
Gerusalemme, tornati a Roma si sarebbero presentati al Vicario di Cristo perché
si servisse di loro dove giudicava che lo richiedesse la maggiore gloria di Dio
e il bene delle anime. Avevano anche
stabilito di attendere l'imbarco per un anno a Venezia; se entro quell'anno non
fossero riusciti a imbarcarsi per il Levante, si sarebbero considerati sciolti
dal voto di andare a Gerusalemme, sarebbero andati dal Papa, eccetera.
Alla fine il pellegrino si lasciò
convincere dai compagni, anche perché quelli che erano spagnoli avevano in
sospeso alcuni affari che avrebbe potuto sbrigare lui. Restarono d'accordo così: una volta
ristabilito, egli avrebbe provveduto a sistemare gli affari dei compagni; poi
si sarebbe trasferito a Venezia e li avrebbe aspettati là.
[86] Lasciò Parigi l'anno 1535. Secondo gli accordi, i compagni dovevano
partire il giorno della conversione di San Paolo del 1537; ma poi, a causa
delle guerre che scoppiarono, lasciarono Parigi nel novembre del 1536. Il pellegrino stava già per mettersi in
viaggio quando sentì dire che lo avevano accusato presso l'inquisitore ed era
stato avviato un processo sul suo conto.
Saputo ciò, ma vedendo che non lo convocavano, andò lui stesso
dall'inquisitore e gli riferì quello che aveva sentito dire; lui però era in
procinto di partire per la Spagna, e aveva impegni con dei compagni; perciò lo
pregava di pronunciare al più presto la sentenza. L'inquisitore rispose che, quanto all'accusa,
sì, era stata fatta; ma, secondo lui, non conteneva nulla di importante; voleva
solo vedere i suoi scritti, cioè gli Esercizi.
Li lesse e li lodò molto, pregò anzi il pellegrino di lasciargliene una
copia; cosa che egli fece. Tuttavia riprese
a insistere che l'inquisitore portasse avanti il processo fino alla
sentenza. E poiché l'inquisitore non lo
ritenne necessario, il pellegrino tornò da lui con un notaio e con dei
testimoni, fece mettere tutto ciò per iscritto e sottoscrivere in fede.
[87] Fatto questo, montò su un cavallino che i
compagni gli avevano comperato e se ne andò da solo verso il suo paese. Per strada si sentì già meglio. Entrando nella provincia di Guipúzcoa
abbandonò la strada principale e prese quella dei monti, meno frequentata. Percorsone un tratto s'imbatté in due armati
che venivano verso di lui (quella strada è piuttosto malfamata a causa dei
banditi); costoro, dopo che l'ebbero oltrepassato di un buon tratto, tornarono
indietro inseguendolo di corsa; ed egli ebbe un pò di paura. Tuttavia rivolse loro la parola, e venne a
sapere che erano al servizio di suo fratello, e che per ordine di lui venivano
a cercarlo. Pare che il fratello avesse
avuto informazioni sul suo arrivo da Bayonne, località della Francia dove il
pellegrino era stato riconosciuto. I due
andarono innanzi e lui proseguì per la stessa strada. Un pò prima di entrare in paese, s'imbatté di
nuovo in quei due che gli venivano incontro e che insistettero per
accompagnarlo alla casa del fratello. Ma
egli non si lasciò convincere. Chiese
invece alloggio nel pubblico ospizio e all'ora più adatta andò elemosinando per
le strade.
[88] In questo ospizio cominciò a parlare delle
cose di Dio a molti che andavano a fargli visita, e con l'aiuto della grazia ne
derivarono frutti abbondanti. Appena
giunto aveva deciso di insegnare ogni giorno la dottrina cristiana ai
bambini. Suo fratello lo dissuadeva
energicamente adducendo il motivo che nessuno sarebbe venuto; lui ribatteva che
gliene bastava anche uno solo.
Quando poi cominciò a insegnare vennero in
molti ad ascoltarlo, e anche suo fratello.
Oltre a questo insegnamento della dottrina cristiana, la domenica e le
feste teneva dei discorsi alla gente che da molte miglia intorno veniva a
udirlo: ne derivava molto aiuto e profitto delle anime. Si diede pure da fare perché venissero
eliminati alcuni abusi, e con l'aiuto di Dio in qualche caso vi riuscì. Per esempio, riguardo al gioco: ottenne dal
giudice che ne fosse decretata l'abolizione e che questa ordinanza venisse
fatta osservare. C'era anche quest'altro
abuso: in quella regione le nubili usano andare a capo scoperto e cominciano a
portare il velo solo quando sono maritate.
Ma molte che diventano concubine di preti o di altri uomini, vanno ad abitare
con loro come fossero legittime mogli; e questo modo di fare è così comune che
le concubine non hanno nessuna vergogna di dire che "si sono coperte il
capo per il tale"; e tutti le conoscono per quello che sono.
[89] Questa usanza provoca molti
inconvenienti. Il pellegrino convinse il
governatore a promulgare una legge: tutte le donne che "si coprivano il
capo per qualcuno" senza essere con lui unite in matrimonio dovevano
essere ufficialmente punite. E in questo
modo si cominciò a eliminare l'abuso. Si
interessò anche perché ai poveri la pubblica amministrazione provvedesse con
sussidi regolari. Per invitare la gente
alla preghiera si doveva suonare la campana dell'Avemaria tre volte al giorno:
al mattino, a mezzogiorno e a sera, come si usa a Roma.
Al principio stava bene di salute, ma in
seguito si ammalò gravemente.
Ristabilitosi, decise di andare a sbrigare gli affari che i compagni
gli avevano affidato. Voleva partire
senza denaro, ma suo fratello se ne infastidì molto: si vergognava che egli
volesse mettersi in viaggio a piedi e come di nascosto, la sera. Il pellegrino accondiscese di partire a
cavallo, insieme con il fratello e i parenti, ma sino ai confini della
provincia.
[90] Appena uscito dalla provincia scese da
cavallo, e senza prendere nulla con sé si avviò a piedi verso Pamplona. Andò quindi ad Almazán, paese del padre
Laínez; poi a Sigüenza e Toledo; da Toledo passò a Valencia. In tutti questi paesi natali dei compagni non
volle mai accettare alcuna cosa nonostante le molte e insistenti offerte. A
Valencia ebbe un colloquio con il monaco certosino Castro. Volendosi poi imbarcare per Genova, gli amici
lo pregavano di non farlo dicendo che per quei mari scorazzava il pirata detto
Barbarossa con molte galere, eccetera. Ma per quante cose raccontassero, più
che bastanti per spaventarlo, non riuscirono a fargli cambiare idea.
[91] Preso il mare su una grossa nave, incappò
nella tempesta di cui si è parlato più sopra quando si disse che fu per tre
volte sul punto di morire. Arrivato a
Genova, prese la strada per Bologna. In
questa città ebbe a soffrire molto, soprattutto quella volta che, smarrita la
via, cominciò a camminare lungo un fiume che era molto in basso mentre la
strada correva più in alto. Quanto più
andava avanti tanto più la strada diveniva stretta; e arrivò al punto che non
poteva più né andare avanti né tornare indietro. Cominciò allora a camminare carponi, e
proseguì così un bel pezzo con molta paura, perché a ogni movimento che faceva
era sul punto di precipitare nel fiume.
Furono la fatica e il pericolo fisico più gravi in cui ebbe mai a
trovarsi; ma alla fine se la cavò. Sul
punto di entrare a Bologna, dovendo attraversare una passerella di legno, cadde
giù; se ne tirò fuori tutto infangato e bagnato, facendo ridere diversa gente
che si trovava sul posto. Entrato in
città cominciò a chiedere l'elemosina; la percorse da un capo all'altro, ma non
raccolse nemmeno un soldo. Vi si fermò
qualche tempo, ammalato; quindi, viaggiando come il solito, si trasferì a Venezia.
[92]. A Venezia in quel periodo si occupò
in dare Esercizi e in altre conversazioni spirituali. Le persone più qualificate a cui li diede
furono il maestro Pietro Contarini, il maestro Gaspare de Doctis, e uno
spagnolo chiamato Roças. Un altro
spagnolo, il baccelliere Hoces, che aveva frequenti contatti con il pellegrino
e anche con il vescovo di Chieti,
era abbastanza propenso a fare gli Esercizi, ma continuava a rimandare
l'attuazione di questo proposito.
Finalmente si decise a cominciarli.
Dopo tre o quattro giorni aprì l'animo suo al pellegrino e gli manifestò
il timore che negli Esercizi lui gli insegnasse qualche dottrina erronea, come
un tale gli aveva insinuato. Perciò aveva portato con sé alcuni libri ai quali
avrebbe fatto ricorso se gli pareva che lo volesse ingannare. Questa persona trovò negli Esercizi molto
aiuto; infine decise di abbracciare il genere di vita del pellegrino. Fu anche il primo che morì.
[93] Sempre a Venezia il pellegrino subì
un'altra persecuzione. Molti dicevano in
giro che egli era stato bruciato in effigie in Spagna e a Parigi. E la cosa andò tanto avanti che si arrivò a
un processo, conclusosi con sentenza favorevole al pellegrino.
I suoi nove compagni arrivarono a Venezia
all'inizio del 1537. Si sparsero subito
per i vari ospedali a prestarvi servizio.
Dopo due o tre mesi si recarono tutti a Roma per ricevere la benedizione
del Papa prima di imbarcarsi alla volta di Gerusalemme. Il pellegrino tuttavia non vi si recò temendo
eventuali ostilità da parte del dottor Ortiz e anche del teatino Carafa
recentemente creato cardinale. I
compagni tornarono da Roma con assegni per duecento o trecento scudi, ricevuti
in elemosina per pagarsi il viaggio a Gerusalemme. Essi accettarono quell'elemosina solo in
forma di assegno, e non riuscendo poi ad andare a Gerusalemme li restituirono a
coloro che glieli avevano dati. I
compagni tornarono da Roma come vi erano andati, cioè a piedi ed elemosinando,
divisi in tre gruppi, ciascuno con membri di diversa nazionalità. A Venezia, quelli che non erano ancora
sacerdoti furono ordinati: il nunzio Verallo, più tardi cardinale, che in quei
giorni si trovava in città, ne diede l'autorizzazione. Furono ordinati ad titulum paupertatis pronunciando tutti voto di castità e
povertà.
[94] In quell'anno non salparono navi per l'Oriente
perché i Veneziani avevano rotto le relazioni con i Turchi. Perciò i compagni, vedendo che la possibilità
di quel viaggio si allontanava sempre più,
si sparsero per il territorio veneto.
Come ne avevano fatto voto, vi avrebbero atteso l'imbarco per un anno, e
se questo fosse trascorso senza poter intraprendere la traversata, sarebbero
andati a Roma. Il pellegrino andò, con
Favre e Laínez, a Vicenza. Trovarono, fuori città, una casa che non aveva porte
né finestre; vi presero alloggio dormendo sopra un pò di paglia che avevano
portato. Due di loro andavano
regolarmente a chiedere elemosina in città due volte al giorno; ma quello che
ricevevano era così scarso che quasi non bastava per vivere. Di solito mangiavano un poco di pancotto,
quando l'avevano, e lo cucinava colui che rimaneva in casa. Trascorsero in questo modo quaranta giorni,
dedicandosi solo alla preghiera.
[95] Dopo questi quaranta giorni arrivò il
maestro Giovanni Codure. Allora tutti e
quattro decisero di cominciare a predicare.
Si recarono in quattro diverse piazze e, lo stesso giorno, la stessa
ora, dopo avere chiamato la gente a gran voce e facendo segni con la berretta,
ciascuno cominciò la sua predica. Questi
discorsi suscitarono profonda impressione in città; molte persone ne furono
infervorate e i compagni ebbero i necessari mezzi di sostentamento con maggiore
larghezza.
Diversamente da come accadde a Parigi, nel
periodo in cui rimase a Vicenza il pellegrino ebbe molte visioni spirituali e
frequenti, anzi quasi continue consolazioni.
Soprattutto quando si preparava a ricevere il sacerdozio, a Venezia, poi
ogni volta che si accingeva a celebrare la messa, e durante tutti quei viaggi
ebbe molte comunicazioni soprannaturali simili a quelle che riceveva quando era
a Manresa.
Mentre era ancora a Vicenza venne a sapere
che uno dei compagni [Simone Rodrigues], che
si trovava a Bassano, era ammalato e in punto di morte. Anche lui in quel periodo aveva la febbre, tuttavia
si mise in viaggio; e camminava così svelto che Favre, suo compagno, non
riusciva a tenergli dietro. Durante il
viaggio ebbe la certezza da parte di Dio - e lo disse a Favre - che il loro
compagno non sarebbe morto di quella malattia.
Al suo arrivo a Bassano, l'infermo si sentì molto confortato e guarì
rapidamente. In seguito tornarono tutti
a Vicenza e per qualche tempo stettero insieme tutti e dieci. Alcuni andavano a cercare elemosina nei
villaggi intorno a Vicenza.
[96] L'anno trascorse senza alcuna possibilità di
imbarco. Allora decisero di partire per
Roma; e vi andò anche il pellegrino perché l'altra volta che i compagni vi si
erano recati, i due personaggi che temeva gli fossero ostili si erano invece
mostrati molto benevoli. Viaggiarono
verso Roma suddivisi in tre o quattro gruppi; il pellegrino era con Favre e
Laínez, e durante questo viaggio ricevette da Dio favori straordinari.
Aveva deliberato che, una volta sacerdote,
sarebbe rimasto un anno senza celebrare la messa per prepararvisi e per pregare
la Madonna che lo volesse mettere con il suo Figlio. Un giorno, trovandosi ormai a poche miglia da
Roma, mentre in una chiesa faceva orazione, sentì nell'animo una profonda
mutazione e vide tanto chiaramente che Dio Padre lo metteva con Cristo suo
Figlio da non poter più in alcun modo dubitare che di fatto Dio Padre lo
metteva con il suo Figlio.
Quando
il pellegrino mi raccontò queste cose, io che le scrivo gli dissi che - secondo
quanto avevo sentito dire - Laínez le riportava con circostanze diverse. Ed egli rispose che tutto quello che diceva
Laínez era vero. Lui ormai non ricordava
bene i particolari; ma era certo che, quando aveva narrato i fatti la prima
volta, aveva detto solo cose vere.
Questo mi dichiarò anche a proposito di altre cose.
[97] Sul punto di entrare in Roma disse ai compagni
che vedeva le finestre chiuse, volendo intendere che vi avrebbero incontrato
molte contrarietà. Disse anche:
"Dovremmo essere molto prudenti ed evitare conversazioni con donne che non
siano di chiara fama". Per fare un cenno su questo argomento si può
ricordare che, più avanti, il maestro Francesco [Xavier] fu confessore di una donna e qualche volta le faceva
visita per colloqui spirituali. Costei
un giorno fu trovata incinta; ma piacque a Dio che il responsabile fosse presto
identificato. Qualcosa di simile accadde
anche a Giovanni Codure, cioè una sua figlia spirituale fu scoperta tra le
braccia di un uomo.
[98] Da Roma il pellegrino si recò a Montecassino
per darvi gli Esercizi al dottor Ortiz.
Vi rimase quaranta giorni durante i quali vide, un giorno, il
baccelliere Hoces che entrava in cielo.
Questo gli causò abbondanti lacrime e un'intensa consolazione
spirituale; tanto più che vide ciò con tale chiarezza che se dicesse il contrario
gli parrebbe di mentire. Da Montecassino
portò con sé Francesco Estrada. Tornato
a Roma riprese a lavorare al bene delle anime.
Abitavano ancora alla vigna ed egli dava gli Esercizi spirituali a
diverse persone contemporaneamente: una di esse stava a santa Maria Maggiore,
un'altra a Ponte Sisto.
Cominciarono
poi le contrarietà.
Michele [Landívar, alias Navarro] cominciò a creare noie e a sparlare del
pellegrino. Questi lo fece comparire
davanti al Governatore, al quale prima di tutto mostrò una lettera di Michele
in cui si facevano ampi elogi del pellegrino.
Il Governatore interrogò Michele e giunse alla conclusione di
allontanarlo da Roma.
Seguirono gli attacchi di Mudarra e
Barreda, i quali andavano dicendo che il pellegrino e i suoi compagni erano
dovuti fuggire dalla Spagna, da Parigi e da Venezia. Ma poi, alla presenza del Governatore e del
Vicario papale (a Roma in quel tempo c'era appunto il Vicario), dichiararono
che non avevano sul loro conto, né quanto a vita né quanto a dottrina, nessuna
accusa da fare.
Il Vicario diede ordine che tutta la causa
fosse messa a tacere; ma il pellegrino non si rassegnò esigendo una formale
sentenza conclusiva. Questo
atteggiamento non fu gradito al Vicario, al Governatore e neppure a quelli che
prima gli erano favorevoli. Alcuni mesi
più tardi, mentre il Papa rientrava a Roma, il pellegrino andò a parlargli a Frascati e gli espose le sue
ragioni. Il Papa ne prese atto e ordinò
che si pronunciasse la sentenza. Questa
risultò favorevole, eccetera.
In Roma, per iniziativa del pellegrino e
dei compagni furono fondate alcune opere pie, quali "I Catecumeni",
"Santa Marta", "Gli Orfanelli", eccetera. Il resto lo racconterà il maestro Nadal.
[99] Dopo che ebbe narrato queste vicende, il 20
di ottobre io chiesi al pellegrino qualche notizia sugli Esercizi e sulle
Costituzioni, desiderando conoscere come li aveva composti. Mi rispose che gli Esercizi non li aveva
scritti tutti di seguito, ma quello che accadeva nell'anima sua e trovava
utile, ritenendo che avrebbe potuto giovare anche ad altri, lo annotava; ad
esempio, l'esaminare la coscienza tenendone conto con il sistema delle linee,
eccetera. In particolare, i vari metodi
di fare elezione mi disse che li aveva ricavati dall'osservare i diversi spiriti
e pensieri che lo agitavano quando era ancora a Loyola a causa della ferita
alla gamba. Delle Costituzioni disse che
me ne avrebbe parlato la sera.
Lo stesso giorno, prima di cena mi
chiamò. Aveva l'aspetto più raccolto del
solito. Premise una dichiarazione che
mirava, in sostanza, a esprimere l'intenzione retta e la semplicità con cui
aveva fatto il suo racconto, ed era sicuro di non avere raccontato niente di
più. Aggiunse che aveva offeso molto
nostro Signore dopo che si era dedicato al suo servizio, ma non aveva mai
acconsentito a peccato mortale; anzi era sempre andato crescendo in devozione,
cioè nella facilità di trovare Dio. E
adesso molto più che nella vita passata.
E poteva trovare Dio in qualunque momento lo desiderasse. Anche al presente aveva molte visioni,
soprattutto del genere di quelle di cui si è parlato più sopra, e nelle quali
vedeva Cristo come un sole. Questo gli
accadeva spesso mentre stava trattando questioni importanti, e la visione costituiva
per lui una conferma.
[100] Anche quando celebrava la messa aveva
molte visioni; e nel tempo in cui componeva le Costituzioni erano
particolarmente frequenti. In quel
momento poteva affermare ciò con più sicurezza, perché ogni giorno era andato
annotando quello che provava nell'anima, e conservava ancora quelle note. Mi fece vedere appunto un grosso fascicolo di
scritti e me ne lesse qualche parte. Si
trattava soprattutto di visioni che aveva a conferma di qualche punto delle
Costituzioni. Vedeva ora Dio Padre, ora
le tre Persone della Trinità, ora la Madonna che intercedeva o approvava. Mi parlò specialmente di due deliberazioni
sulle quali si trattenne quaranta giorni, celebrando quotidianamente e con
molte lacrime. Le questioni erano: se le
nostre chiese potevano avere rendite, e se la Compagnia avrebbe potuto
beneficiarne.
[101] Il metodo che seguiva nel comporre le
Costituzioni era il seguente: ogni
giorno celebrava la messa, presentava a Dio il punto da trattare e vi faceva
sopra orazione. E sempre faceva orazione
e celebrava la messa con lacrime.
Io desideravo vedere quei manoscritti che
riguardavano tutte le Costituzioni, e lo pregai di lasciarmeli un poco; ma lui
non volle.
N.B. Le note marginali sono state
conservate, ma inserite nel testo, in corsivo.
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